#LIVINGARTISTS meets #NICCOLONARDELLI

Da sempre divido le persone in due categorie: quelle che stanno dentro la bolla blu e il resto del mondo. Non chiedetemi perché la bolla è per forza blu, né perché è una bolla. Non è un pensiero vetero buddista. Non pratico yoga e l’esperienza più mistica che vanto è la realizzazione di kolossal nella tratta Mezzolombardo-Trento e ritorno, con preferenza per le ore tardo pomeridiane. Sono film mentali di straordinaria efficacia comunicativa, dove scarseggiano i dialoghi ma la colonna sonora è puntualmente da premio oscar. Il più meditativo della mia cerchia è mio figlio, che a quattro anni dichiarava con incrollabile certezza l’esistenza di almeno tre ulteriori vite future, più un non meglio precisato numero di vite passate.

Non tutti quelli che fanno parte della mia routine e dei miei affetti vivono nella bolla blu e forse nemmeno io: ma ogni volta che incontro qualcuno così lascia in me tracce permanenti.

Il giorno in cui dovevo intervistare Niccolò Nardelli era uno di quelli da passare a letto e tanti saluti. Grigio, freddo. Antipatico. Indisponente. Con una pioggerellina vigliacca incapace di assumere un carattere vero. Non un bel preludio insomma. Aggiungete il fatto che non mi sento in grado di intervistare nemmeno la terza delle mie personalità multiple, figuriamoci un essere umano! Sarà che la scrittura è la cosa più sacra che maneggio e, insomma, scrivere un’intervista per me equivale più o meno a una preghiera.

Quindi ho fatto quello che da anni mi riesce meglio: ho studiato, mi sono preparata. Pulizia, campo neutro, personalità, bla bla bla. E poi alla fine ho fatto l’altra cosa che mi viene meglio: ho seguito l’istinto. Insomma, ho improvvisato.

La verità è che tutto è stato più semplice del previsto: perché Niccolò è arrivato dentro un’enorme bolla blu. Non solo: è arrivato aggrappato alla mano della sua Anna. Anna gli ha tenuto la mano per un’ora intera: io la ringrazio perché Niccolò è un essere speciale. E la cura di quella mano mi dava la misura del mio sconfinare. Ci siamo chiusi in un ufficio della scuola che mi garantisse non dico l’insonorizzazione, ma almeno un po’ di atmosfera ovattata. E siamo partiti.

Quello che fai è di una naturalezza strabiliante: quando hai incominciato ad avvicinarti alla giocoleria?

Ho cominciato a fare giocoleria dagli undici, forse dodici anni. Mia sorella mi aveva portato all’Area Teatro di Piedicastello: lì si poteva entrare gratis e prendere il materiale a disposizione, provarlo. Poi ho conosciuto il mio maestro attuale, Simone Alani, vincitore di Italia’s got talent 2015; lui mi sta insegnando come uno spettacolo si struttura. E’ un artista di strada da dieci anni e secondo me è il migliore. La giocoleria è un lavoro duro, che richiede costanza e disciplina: quest’anno non ho più molto tempo, perché mi devo esibire spesso. Ma prima mi allenavo dalle cinque alle sei ore al giorno. All’inizio mi esercitavo solo con le classiche tre palline da lancio, poi sono passato alle sfere e mi sono appassionato.

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Ti sei sentito supportato in questa esperienza dalla tua famiglia e dai tuoi amici? Come hanno vissuto le tue scelte?

I miei genitori sono sempre stati contenti di quello che ho deciso di fare: ma è comunque una scelta radicale e non semplice. Bisogna continuamente spostarsi, abituarsi a ritmi diversi di volta in volta.

Per quanto riguarda invece i miei coetanei, non mi sono mai trovato del tutto a mio agio con loro; a volte nemmeno con i miei amici.

Credo di avere una concezione diversa della vita. Ho l’impressione che loro non trovino un senso in quello che faccio.

Anche da piccolo ero un bambino vivace, ma un po’ isolato forse. E’ che sono stato spesso ammalato. Questo mi ha spinto probabilmente ad essere riflessivo: a cercare prima la mia strada e solo dopo ad andare verso gli altri. La malattia ti insegna velocemente a distinguere le priorità.

Come mai hai scelto questo nome d’arte?

Mercante di Meraviglia” è un nome che ha scelto la mia ragazza e viene dal mio spettacolo. Il mio spettacolo si intitola “Mercante di gravità”: parla di un mercante che viene scacciato dalla sua città perché sapeva dominare la gravità. Mi piaceva molto l’idea che il mio nome d’arte tenesse la stessa linea dello spettacolo, ma anche che rendesse l’intenzione della mia arte.

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I tuoi spettacoli quindi hanno una trama narrativa, tu pensi una sceneggiatura, è una storia quella che racconti. Che però è strano in uno spettacolo di giocoleria, dove ci si aspetterebbe semplicemente un’esibizione, stupefacente certo, ma tecnica.

Ci sono vari tipi di giocoleria: la giocoleria teatrale, la giocoleria tecnica… la mia non è né l’una né l’altra. Ha vari aspetti: un po’ di magia, un po’ di giocoleria, appunto, molte tecniche di mimo, tante cose con cui sto cercando di arricchire il mio spettacolo.

C’è tanto trasporto in quello che fai: un’atmosfera particolare, un’espressione tua particolare… tu vivi tantissimo le tue esibizioni, che diventano inevitabilmente poesia. E la poesia è trovare qualcosa di bello anche dove gli altri non lo vedono. E’ importante per te? Credi sia importante trovare bellezza nella vita?

Io credo che l’arte sia l’unica scelta possibile per il futuro dell’umanità. Ormai quasi tutto quello che ci circonda lo fanno le macchine. L’uomo DEVE fare arte e deve diffondere bellezza. La giocoleria non è una roba da accattoni e gli artisti di strada non sono dei perdigiorno. Mi piacerebbe che la gente lo sapesse. E vorrei che la mia esperienza lo confermasse, ma col tempo ho capito che potrò far cambiare l’idea ad alcune persone, non a tutti. Però questo per ora mi basta.

Quanto conta la musica in quello che fai?

Io sono appassionato di musica: ci trovo tanta ispirazione perché ti fa provare emozioni e dalle emozioni nasce la bellezza, per tornare a quello che ci dicevamo prima. Anche da un’emozione negativa, come la tristezza, può nascere bellezza; ma se non si ha il coraggio di sentirla, di subirla forse, non sarà mai possibile rendersene conto.

Nei miei numeri io cerco di esprimere tutte le emozioni possibili e tante sono le definizioni di bellezza. La musica ti avvolge e ti coinvolge: ti immerge in quello che provi.

Non ho un genere musicale prediletto: se fossi costretto a sceglierne uno, direi che è il reggae. Lo ascolto da quando avevo più o meno 14 anni e mi ha preso completamente, perché la musica reggae ha davvero un cuore.

Incominciando a fare spettacoli, mi sono spostato anche sulla musica classica: un classico/contemporaneo però: Armand Amar, Ludovico Einaudi, per farti alcuni nomi. Comunque musica strumentale.

Il reggae non poteva funzionare con quello che faccio io, perché ho bisogno di atmosfere che permettano allo spettatore di entrare a piedi uniti nella storia. Non posso fare, ad esempio, uno spettacolo sullo yin e lo yang ed usare la musica reggae: non funzionerebbe perché il reggae ha già una sua narrazione ben definita che annullerebbe la mia. Uso anche molto jazz, molto blues e il rock classico.

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A Tu sì que vales però hai usato una canzone di Jovanotti…

Non proprio. Io avevo usato una base strumentale, Human di Armand Amar, che poi è stata cambiata durante il montaggio. All’inizio ci sono rimasto male, poi sentendola e risentendola mi sono reso conto che poteva funzionare anche così.

Il fatto è che togliere l’anima ad una storia è quasi una violenza, su di me prima di tutto, ma anche sulla storia.

Pensi che abbiano voluto giocare sulla tua immagine? Sul tuo apparire timido e sui generis? Che ti abbiano appiccicato un’etichetta che magari ti è anche in parte congeniale, ma che non è quello che tu volevi raccontare?

Penso proprio di sì. Tra l’altro non ho vissuto appieno neanche il momento. E’ stato così veloce che mi è sembrato un secondo. Andare a Roma, allenarmi, è stata sicuramente un’esperienza intensa e mi avevano anche richiamato per la finale come riserva. Siccome nessuno si è ritirato, non sono più stato ripescato. Però c’è stata un’eco pazzesca: ho fatto diverse esibizioni per molte agenzie. Simone Alani è diventato una sorta di manager, anche se non abbiamo ancora un vero contratto. Mi ha procurato molti spettacoli e mi ha anche dato una mano a strutturarli. Forse la faccenda del ragazzo triste e timido era una sorta di prezzo da pagare.

Ti senti realizzato Niccolò?

Assolutamente sì. Da quando ho incontrato Simone Alani ho subito capito di voler diventare un artista di strada. Non ci ho creduto subito, ma quando ho visto che riuscivo a migliorare ho capito che potevo farcela. E anche lui me lo ha confermato: io non faccio solo manipolazione. Voglio dare un’anima ai miei oggetti. Ho capito che riesco ad emozionare la gente, non solo a sorprenderla per la tecnica.

Questo è un momento un po’ difficile per la vostra generazione. Il mondo in cui siamo immersi è totalmente virtuale e invece quello che fai tu è molto reale: lo fai con le mani, c’è un’intenzione dietro, c’è anche un filo narrativo, come tu mi hai confermato. Ma la maggior parte dei tuoi coetanei vive proiettata dentro storie che però non vive. Pensi che sia un’osservazione corretta o siamo noi adulti che non vediamo cosa cercate? O il problema è che la tua generazione, piano piano, non prova più niente?

Io non credo sia tanto il fatto che la mia generazione non provi più niente, ma è certamente vero che si sta allontanando troppo dalle cose. Non andare a teatro, al cinema e invece passare le serate su Facebook spegne la capacità di sentire.

Non sono contro la rete in generale, perché è un modo per ritrovarsi e organizzarsi e aiuta anche molto. Però è un mondo bugiardo.

Cosa allontana la tua generazione dalla ricerca di un’emozione, allora? Cosa vi manca, anche da parte del mondo adulto in generale?

Ti ripeto che non è un problema di generazioni: è ora di smetterla di classificare tutto. Ci sono vari interessi, di varie persone. Ultimamente i social sono molto usati, ma non esiste solo quello! Il fatto che una generazione sia così, non dipende dalla generazione in sé, o dalle altre generazioni, ma dal contesto. Si cresce, si cambia ed è anche vero che molti resteranno dove sono, ma non saranno comunque gli stessi per sempre.

Io non mi sento di dare consigli, ma provare ad entrare in un mondo è necessario per trovare la propria strada. Cercare di non diventare cloni l’uno dell’altro. Di non avere paura di stare soli. Di guardarsi dentro. Gli interessi sono diversi e non è possibile sacrificarli per il gruppo. Se uccidi un interesse, uccidi il germe di quello che può diventare la tua identità. Bisogna entrare in contatto con le proprie emozioni, anche negative. Entrare in contatto anche con il fallimento, con la fatica. E poi fare uscire tutto, dargli una forma.

Lo guardo e penso che vorrei la ricetta… dacci la ricetta, Niccolò! Dacci la ricetta per realizzare i sogni dei nostri ragazzi, per non lasciarli inghiottire dal nulla, o fermi ai blocchi di partenza. Penso ai recenti fatti di cronaca: a com’è difficile leggere tra le righe di quello che ci appare fragile o forte. Capire il confine tra l’essere presenti e l’invadere, fra il rispettare e il non esserci. Mi trovo di fronte ad un giovane uomo che ha saputo darsi un’occhiata dentro senza spaventarsi troppo e mi sembra pazzesco e incredibile quanto questo sembri irrealizzabile anche a molti adulti. E ripenso alla sua considerazione sull’arte, non come terapia, ma proprio come salvezza: forse ogni tanto dovremmo intervistarli i nostri figli. Sederci in campo neutro, alzare le mani e ascoltare. Registrare. Imparare.

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C’è un tema che ti è più caro?

L’idea centrale de “Il Mercante di Gravità” è lo stupore, il rovesciamento delle regole: i potenti dell’epoca non sopportano che lui abbia questa capacità. Per gelosia lo scacciano togliendogli le scarpe. Lo fanno perché le scarpe sono un lusso che solo pochi potevano permettersi; ma siccome lui aveva avuto molto successo se le era comprate. Quindi i potenti subito gliele tolgono. Da quel momento lui viaggia e si esibisce per strada superando ancora le leggi della gravità.

Controllare la gravità, se vuoi, è proprio quello che io cerco di fare con i miei strumenti: un’idea che mi ha sempre affascinato, ma non saprei spiegare perché. Anche solo controllare sette palline contemporaneamente non è cosa da poco.

La gravità è la legge a cui tutti dobbiamo obbedire: è quello che ci tiene attaccati alla terra e a cui ci dobbiamo piegare. E quando stiamo male forse l’immagine che ci rappresenta meglio è quella di un sorta di schiacciamento gravitazionale: allora capisco la paura che hanno i governanti del tuo Mercante. Ma togliendogli le scarpe, in realtà, gli rendono la libertà di volare.

E’ vero: volare e provare l’impossibile. Sempre l’uomo deve provare a realizzare l’impossibile.

Io ti ho visto in città e tu sembri totalmente rapito da quello che fai. Tu percepisci l’emozione che susciti mentre ti esibisci?

Se un pubblico apprezza quello che fai lo senti e lo vedi: lo senti dal silenzio e lo vedi dalle facce. Racconto una storia e così mi spiego, posso darmi, posso essere io.

Qual è il rapporto con gli oggetti che usi? Sembra speciale… come se tu vedessi davvero qualcosa nelle tue sfere…

I miei oggetti sono praticamente delle reliquie: sono talmente forti e deboli allo stesso tempo… sono semplici, ma creano bellezza. Dopo che ho ricevuto la mia prima sfera, sono passati anni prima che trovassi il coraggio di usarla. Sentivo di doverla rispettare, di dover rispettare i suoi tempi. Poi quando finalmente ho deciso che era il momento c’è stato una sorta di imprinting, di attaccamento. E un attaccamento analogo c’è stato con le altre sfere: nessuna di loro è uguale. Nessuna vale l’altra. La loro bellezza dà pace a me e a chi mi guarda: di quante cose si può dire nella vita?

E qual è invece il tuo legame con la strada?

Ora faccio spettacoli per aziende o centri commerciali, ma il mio sogno è proprio quello di restare per strada. Voglio che si crei un legame tra me, il mio pubblico e i miei oggetti. Voglio la magia, e la strada è il mio posto della magia, per ora.

Può darsi che tra dieci anni riuscirò a imprigionare la magia nei teatri, ma uno spettacolo che faccio per strada non potrò mai proporlo a Tu sì que vales, né in un centro commerciale. Manca il dono della strada: quella è l’atmosfera che voglio.

E’ chiaro: lo spettacolo di strada impone al pubblico di sceglierti, di fermarsi volontariamente e guardare. La magia cattura e si crea il legame con quel momento, in quel posto. Ogni numero è un gancio che Niccolò usa per coinvolgere. E forse è proprio quello che ti colpisce così tanto di questo ragazzo: è un dono per tutti, ma ognuno sceglie quando andare a prenderselo e per quanto tempo. Davvero un rito.

Niccolò è sfinito alla fine di questa intervista, perché la sua poesia non sta nelle parole. Io invece ho sconfitto il grigio di questa giornata e di certi pezzi di vita. Ho riposato nella sua bolla blu e sono colma di gratitudine. Glielo dico.

Me ne vado in macchina a girare un altro film, theme song di Armand Amar.

Sarà una storia d’amore struggente. Non ho idea di come finirà, ma ci sarà il piano sequenza di un abbraccio lunghissimo, in mezzo a un bosco. E due mani che si aggrappano strette. A tener su la vita.

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