NON TORNIAMO ALLA NORMALITA’

Io non ci voglio tornare alla normalità. 

Non a quella di prima.

Voglio tornare alla normalità dei baci, degli abbracci, quella senza la mascherina e la paura dell’altro, di toccare qualunque cosa; il cancello, la porta, la pulsantiera, il distributore automatico, i soldi… no va beh i soldi continuerebbero a farmi schifo, infatti non ne ho quasi mai.

Voglio tornare a dormire serena la notte senza essere svegliata dalle urla delle ambulanze pensando che qualcuno stia soffocando, ma voglio continuare a dormire in questo silenzio privo di traffico e rumori, svegliarmi con l’aria pulita e i profumi che in vita mia ho sentito solo in montagna: il prato umido di rugiada, il respiro della terra bagnata, il profumo delle foglie e la resina degli aghi di sottofondo, con qualche nota di fioriture primaverili: il gelsomino, la magnolia, le diverse sfumature delle rose.

Non voglio tornare sui treni carri bestiame diretti a Milano, mescolarmi alla folla di topi umani che escono dalle metropolitane e corrono, corrono, corrono, per arrivare al lavoro, per lavorare, per arrivare a prendere i figli a scuola, per arrivare a fare la spesa e poi andare a casa a cucinare, pulire, stirare, far studiare i figli, crollare appena toccano il divano con una natica, svegliarsi nel cuore della notte e passare dal divano al letto, per ricominciare da capo il giorno successivo. 

Non voglio tornare alla vita di prima, perché ora ne ho l’assoluta certezza: non era vita.

No non la voglio più questa schiavitù, questa vita da ratto in mezzo ad altri schiavi, tutti stanchi, infelici, frustrati, sfruttati, stipati in luoghi angusti, puzzolenti e mefitici, inquinati, dove l’aria, l’acqua il cibo, non hanno sapore e sono contaminati, dove le relazioni sono irrimediabilmente compromesse già appena nate, come fiori nell’asfalto che quasi certamente non sbocceranno mai.

Ci voleva un microscopico virus maledetto, che poi così terribile non è, nella maggior parte dei casi, ma che quando decide di fare il bastardo non sappiamo ancora fermare, per farci capire che il lavoro è un mezzo, non un fine e che l’economia si può fare girare anche senza stare come buoi attaccati al giogo di una macina?

Ci voleva un virus per farci capire che non è affatto necessario stiparci tutti alla stessa ora in dei carri bestiame ogni mattina e ogni sera, semplicemente perché almeno la metà di noi potrebbe lavorare da casa? Che non solo si può, ma si produce di più, anzi: è difficilissimo fermarsi. 

A casa si lavora un numero di ore che non ci sogneremmo mai di vedere sul cartellino, ma non te ne accorgi, perché nella pausa abbracci tuo figli@, prendi un caffè col tuo compagn@, organizzi una gita per il weekend, pulisci il bagno, stendi una lavatrice, e alla sera oltre ad aver lavorato anche le 2 ore che avresti passato sui mezzi, ne hai aggiunte almeno una o due senza accorgertene, ma la casa è in ordine, sei stat@ con la tua famiglia, hai fatto la tua spesina, hai anche avuto il tempo di cucinare una cena decente, tutto senza stress. 

Lavorare da casa permette di condividere carichi di cura. Il nostro sistema economico, tarato alle fondamenta da una minore considerazione e retribuzione delle lavoratrici donne, indipendentemente dal loro reale valore, porta anche all’interno delle famiglie più progressiste e paritetiche, questa disparità sostanziale. 

Anche in questo frangente in cui i carichi di cura sono eccezionalmente onerosi, vengono naturalmente e gioco forza addossati alle donne, il cui stipendio incide meno sul bilancio familiare, quindi è il primo a cui logicamente le famiglie sono disponibili a rinunciare. Questo genera squilibri di potere, riconoscimento di valore sociale ed umano, non solo nella società, ma anche all’interno delle stesse coppie ed è il motivo principale del naufragio di unioni basate su una parità ideale, che crolla miseramente in un quotidiano che di fatto si rivela ben diverso. 

Chi ha un potere finirà prima o poi per esercitarlo ed anche se la patria potestà è stata giuridicamente abolita, sopravvive di fatto nella disparità economica, che porta con sé a cascata effetti devastanti sulle unioni e mina, sia la solidarietà fra i sessi, che la tenuta reale delle famiglie. Le persone costrette a condividere lo stesso tetto per mancanza di alternative economicamente percorribili, non sono famiglie, ma luoghi di indicibile sofferenza e potenziale pericolo, diciamolo chiaramente per tutti coloro che ancora pensano di poter risolvere il problema privando della libertà di scelta i singoli ed in particolare le donne.

Lavorare da casa potrebbe essere un’eccezionale soluzione per non dover rinunciare a nessuno stipendio e suddividersi realmente i carichi di cura. Permetterebbe ai molti Padri che desiderano essere maggiormente presenti nel quotidiano dei figli, di non sentirsi caricati del peso economico e contemporaneamente privati del prezioso aspetto relazionale che dovrebbe motivare la loro fatica. Alle Madri una reale comprensione e condivisione e delle fatiche e della funzione genitoriale, ma anche della programmazione e gestione della dimensione domestica e familiare che è pressoché totalmente addossata a lei ed anche libertà di movimento: libertà di andare a lavorare, a fare la spesa senza marmocchi e perché no? In palestra, a passeggiare o a fare un aperitivo con le amiche. Permetterebbe anche a molti figli di crescere quotidianamente con la presenza di entrambe i genitori, in famiglie maggiormente collaborative dove c’è il tempo per l’attenzione, il dialogo e il confronto. 

Idealmente lo smart working potrebbe anche aiutare nel processo di eliminazione di disparità salariale, permettendo alle donne, non solo di condividere coi compagni i carichi di cura, ma anche di conciliarli maggiormente con quelli lavorativi, contenendo moltissimo tutte quelle problematiche in termini di presenza e continuità che la maternità necessariamente comporta: la gravidanza, le malattie dei figli, l’assenza della baby sitter, le vacanze scolastiche… non sarebbero più un dramma, con buona pace anche per i poveri Nonni. Una volta superati i problemi pratici, rimarrebbe la necessità di un cambiamento culturale, ma sono certa che abbiamo gli strumenti per portarlo avanti.

Una volta capito che molti di noi possono lavorare benissimo anche da casa, che bisogno c’è di essere tutti in ufficio alla stessa ora, anziché muoversi scaglionati su mezzi comodamente ottimizzati, vuoti e puntuali?  E se i mezzi pubblici fossero efficienti, enormemente più comodi ed economici della propria auto, sarebbe disincentivato l’uso dei mezzi propri, diminuendo traffico, code, smog.

Ci voleva un virus per farci capire che non era affatto necessario sclerare nel traffico, impazzire per un parcheggio, perdere ore in spostamenti, perché le riunioni si possono semplicemente fare in skype anche dal salotto di casa propria? E non è necessario che i partecipanti siano fra Pechino e New York, perché per attraversare Milano o Roma ci vuole almeno il doppio del tempo che ci si mette in treno ad andare a Bologna. Quante ore di vita ci sono state tolte per inutili riunioni dall’altra parte della città o per portare documenti e pratiche che si potevano semplicemente spedire?

No io non ci torno alla vita di prima. 

Nessuno ha voglia di tornarci, e allora non torniamoci nessuno. 

Quando avremo ottenuto il diritto ad andare in ufficio un paio di giorni alla settimana, potremo finalmente essere liberi di vivere lontani dalle grandi metropoli, di respirare, bere, mangiare cose sane, magari coltivate nel nostro pezzetto di giardino sopra allo scavo del geotermico in case a impatto ambientale quasi nullo. 

E per chi volesse proprio rimanere in città, comunque sarebbero meno caotiche, intasate ed invivibili.

Credo che si possa fare. Credo che ci siamo quasi. 

Non credo che servisse un virus, ma almeno facciamone tesoro, facciamo sì che tutto questo dolore non sia stato inutile: riprendiamoci la nostra vita e ridiamo respiro al pianeta, garantendo una vita anche alle generazioni future.

Forse vi sembra un sogno, ma non lo è. Può darsi che stia parlando della fase 3792, ma sono certa che è lì che dobbiamo andare. Non dobbiamo tornare da nessuna parte, anche perchè non si può tornare nel passato, possiamo solo proiettarci oltre: questa pausa non è una caduta, ma lo stacco di un salto.

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