ODE TO DOLORES

Non pensavo alla morte di Dolores O’Riordan. Non pensavo che la sua morte avrebbe colpito così tanto. Nel mio immaginario lei era la colonna sonora della costruzione di una me stessa adulta. Ma roba per poche anime elette, in un mondo che ballava la tecno e l’hardcore e ti pigliava per il culo mentre tu ascoltavi i suoi “lamenti alternativi”. Credo che gli anni ‘90 siano stati gli ultimi in cui i ragazzi hanno sentito il bisogno di urlare rabbia, disperazione, ingiustizia. L’Ira, i Balcani, il Kuwait, tangentopoli, Falcone e Borsellino… ti sentivi incastrato in un presente a pezzi, che ti chiedeva di fare senza dirti come. Del resto forse il come non è mai stato detto a nessun decennio. Non penso che fossimo meglio: mi fa solo paura il fatto che i ragazzi non urlino più. Qualcuno li ha spenti. 

Lei cantava la depressione, lo stupro, l’abbandono. Con una voce alla quale forse solo Sinead O’Connor poteva tener botta, e in fondo la storia è quella per entrambe. La terra è quella. 

Una voce che pareva l’avesse mandata Dio in persona: un Dio donna che urlava #machecazzostatefacendolaggiù.

Non SI CHIAMAVA Dolores: lei ERA davvero Dolore.

L’ho cantata e suonata tantissimo. Malissimo. Ho i suoi CD conservati come reliquie e credo di aver ricostruito un riflesso della sua immagine in me, con quei capelli troppo corti e mai in ordine. Ma l’ho capito solo ieri sera. E un po’ ho sorriso e un po’ mi sono spaventata.

L’ho vista per l’ultima volta a Bolzano: in un’estate caldissima si è cambiata un milione di volte, senza smettere di cantare. Portava decine di magliette su quattro ossa rotte e le lanciava al pubblico, che ne chiedeva ancora. Credo che abbia vissuto così, levandosi uno strato alla volta fino a rimanere nuda e senza pelle.

E ora there’s no need to argue anymore, ma noi sì. Noi sì.

DOLORES O RIORDAN

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