Il titolo viene dalla Conferenza Come on girls, let’s work! a cui ho partecipato lo scorso 29 Gennaio presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale di Trento organizzata da Università degli Studi di Trento, Università Ca’ Foscari di Venezia e Università Paris 1 Panthéon-Sorbonne in Memoria di Valeria Solesin, la giovane ricercatrice italiana uccisa a Parigi il 13 novembre 2015, durante la strage del Bataclan. Nata e cresciuta a Venezia, aveva poi conseguito a Trento la laurea triennale presso la Facoltà di Sociologia e stava concludendo la sua tesi di dottorato presso l’Università Paris 1 Panthéon-Sorbonne sui comportamenti riproduttivi in Italia e in Francia. Tra i suoi principali interessi di ricerca figuravano le disuguaglianze di genere nel mercato del lavoro, i comportamenti e le decisioni familiari e di fecondità, le politiche di welfare.
La conferenza ha rappresentato così un’importante opportunità per discutere e presentare studi sui recenti sviluppi nell’ambito della demografia, dell’economia e della sociologia incentrati in particolare sulle tematiche:
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le disuguaglianze di genere
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il ruolo delle donne nel mercato del lavoro e nella società
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le politiche di welfare dirette all’occupazione femminile e alle scelte riproduttive
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il matrimonio, la famiglia, la sessualità
Mi piacerebbe potervi dire tante belle cose sugli studi su donne e lavoro, invece per quanto riguarda l’Italia le cose sono messe male, anzi malissimo. E lo dicono degli studi, ed anche molto seri, e non io.
A questo proposito proprio ieri mi sono ritrovata al centro di una discussione in cui sono stata tacciata di femminismo e qualunquismo semplicemente per avere affermato, in merito alle recenti elezioni politiche, che a parer mio dare il voto ad una donna affinché questa possa effettivamente essere messa alla guida di un eventuale governo, è ancora un tabù in questo Paese (amenoché non si tratti di Cicciolina, ma questa era una battuta… o no?).
Mi è stato risposto prontamente che il giorno in cui si presenteranno delle (candidate dico io) “donne votabili” (…) forse queste ultime verranno prese in considerazione “senza tener conto dei genitali che hanno nelle mutande”. La mia risposta è stata – ed è tuttora – che non mi sembra affatto che questi non meglio definiti “criteri di votabilità” vengano applicati né richiesti allo stesso modo ai candidati maschi al fine di considerare questi ultimi degli “uomini votabili”.
Insomma in Italia la questione della parità di genere perlopiù è ancora ai livelli della discussione da bancone del bar. Questo riportato qui è semplicemente l’esempio più recente, e nemmeno il più eclatante. E’ la cosiddetta ?normalità? in questo nostro Bel Paese. E quando una donna (in questo caso io) prova a togliere l’attenzione dal contenuto delle mutande ed inizia a parlare di fatti storici, economici e politici per contrastare il tentativo di veder sminuita la propria opinione, come risultato troppo spesso ottiene di non avere nemmeno più risposta. Concludendo, viene spesso ignorata, e la questione sollevata rimane sospesa, lascia sotteso un retaggio culturale fortissimo che ci trasciniamo da decenni in questo paese sulle questioni di parità di genere che è difficile rompere.
Questo esempio inoltre non vuole significare che sia sempre così, ma i dati a seguire che ho raccolto durante la conferenza vi confermeranno che nella maggior parte dei casi – purtroppo – in Italia il dibattito è ancora in larga parte di questa portata. E allora, per darmi un po’ di credibilità, via con la carrellata di dati ISTAT e ricerche accreditate.
La prima parte ha trattato i temi della Crisi, mercato del lavoro femminile e andamento della fecondità presentata dalla Dottoressa Linda Laura Sabbadini, che si occupa di studi di genere e e comportamenti demografici in Italia, a lungo direttrice del dipartimento per le statistiche sociali ed ambientali ISTAT ma soprattutto la prima persona che ha introdotto in Italia le statistiche di genere e che a dato il via alla prima indagine ISTAT su molestie e violenza di genere.
In questi ultimi 10 anni di crisi in Italia le disuguaglianze sociali, generazionali e territoriali sono aumentate. Il gap di genere sembra essere diminuito nei numeri, ma perché? La crisi è stata trasversale ma selettiva, ed ha portato ad una ricomposizione della mappa dei rischi di esposizione a povertà nei differenti segmenti della popolazione (triplicata per giovani e bambini, diminuita per gli anziani).
Il crollo dell’occupazione ha avuto 2 momenti clou: il 2009 ed il 2013. La famiglia in qualche modo ha tamponato la situazione dando fondo ai risparmi e cominciando ad indebitarsi sempre di più pensando di potercela fare. Poi ad un certo punto non ce l’ha fatta più. Il raddoppio della povertà si è verificato in questo momento. E le donne? Le donne hanno retto meglio nella crisi. Da un punto di vista dell’occupazione si trovano ad avere 2 punti (in 10 anni) in più rispetto alla pre-crisi. Ma dobbiamo ricordare che siamo al tasso di occupazione del 49% – in fondo alla graduatoria europea insieme alla Grecia.
In termini generali oggi a fronte dei 23 milioni di occupati, abbiamo in Italia un problema di inclusione sul fronte dei giovani che è fondamentale affrontare: l’età media degli occupati in Italia oggi è di oltre 50 anni. Giovani e donne non sono stati inclusi in questa recente crescita occupazionale.
In Italia la crescita del PIL è particolarmente lenta, e laddove in Europa tutti i paesi avevano già recuperato il PIL pre-crisi, noi non siamo ancora riusciti a recuperare il livello del PIL pre-crisi. per questo motivo la nostra forbice si amplia e questo si traduce in una ulteriore difficoltà per la crescita dell’occupazione femminile: bisogna dotarsi di strategie adeguate per fare in modo che la spinta del PIL sia più forte per poter trainare la crescita dell’occupazione.
Questa occupazione ha una composizione interna diversa da prima che vede: più donne, più anziani e meno giovani. Il gap di occupazione femminile e maschile è diminuito di 5 punti dal 2007 ad oggi. Ma il gap si riduce solamente a seguito del crollo dell’occupazione maschile. Non basta sapere che il gap di genere è diminuito, dobbiamo anche capire che cosa c’è dietro.
La cosa rilevante è che aumenta la differenza fra diversi segmenti di donne: cioè diminuisce il gap di genere ma aumenta la differenza tra donne.
In primis la crisi agisce sulla differenza tra donne del sud e donne del nord. In questo scenario c’è anche da inserire il dato delle donne immigrate del nord, inserite nei servizi alle famiglie che sono l’unico settore che non ha visto calo di occupazione. E la differenza fra donne è cresciuta anche per titolo di studio fra nord e sud (dove il tasso di occupazione è del 20%): abbiamo quindi dei segmenti di donne sempre più estesi in cui le opportunità si divaricano tra loro stesse. Questa esasperata differenza sociale tra le donne stesse influisce in prospettiva anche in termini di sviluppo di movimenti delle donne all’insegna dell’unità delle donne.
Nel mercato del lavoro se è vero che le donne hanno tenuto di più nella crisi, la qualità del lavoro è diminuita.
Part-time quello italiano è sempre stato più basso rispetto all’Europa; oggi si è allineato. ma questo non è un dato positivo, a fronte della sua forte crescita negli ultimi 10 anni – il 90% di questi part-time è involontario cioè NON VOLUTO DALLE DONNE: questa non è una flessibilità dal punto di vista delle donne ma dal punto di vista dell’impresa. In Italia siamo al 60%, in Europa il 30%: questo è un problema di qualità del lavoro.
Sovraistruzione le donne hanno avuto sempre un livello di sovra-istruzione maggiore a quello maschile. Contrariamente al senso comune avere avuto una laurea è stato protettivo nel mondo del lavoro. Ma sono anche aumentate le professioni non qualificanti, diminuite le professioni tecniche ed è peggiorata la conciliazione dei tempi di vita durante la crisi.
Conciliazione dei tempi di vita oltre al taglio dei servizi per la famiglia l’Italia è un paese dove l’organizzazione del lavoro non è flessibile in un’ottica delle donne ed anche la divisione dei ruoli nella coppia non è tendenzialmente simmetrica come negli altri paesi europei: c’è quindi un problema culturale che ci trasciniamo da parecchi anni. Ma qualcosa sta cambiando: la percentuale di ore di lavoro nella coppia assorbita dalla donna è diminuita dagli anni 80 lentamente, ma questo perché la donna non ce la faceva più. Le donne hanno cominciato così a tagliare nelle faccende domestiche, mentre il lavoro per la cura dei figli è aumentato considerevolmente.
Nel 2015 per la prima volta il carico di ore di lavoro nella coppia diminuisce per la donna perché gli uomini contribuiscono di più – ma laddove il titolo di studio degli uomini non è significativo, lo è per la donna che ha così maggiore consapevolezza e maggiore capacità di contrattazione. Il contributo maschile cresce, ma nello stesso tempo gli uomini scelgono di contribuire maggiormente nella cura dei figli. Mentre per quanto riguarda il meccanismo di cambiamento gli uomini non svolgono tutti i tipi di lavoro nella coppia. Il 67% del lavoro a carico delle donne diventa 95% per lo stirare, l’ 80% per il pulire e il 55% per la cura dei figli (lavoro mal-diviso). La divisione dei ruoli quindi è sbilanciata, ma tuttavia a seguito di un secondo quesito sull’equità della divisione dei ruoli la maggioranza di uomini e donne risponde che è percepita come equa. Questo significa che c’è una percezione non oggettiva della situazione reale dettata dal nostro retaggio storico e culturale. Questo inoltre in Italia è accentuato dal fatto che non abbiamo mai avuto l’appoggio dell’adozione di politiche di conciliazione adeguate. Nei paesi nordici negli anni 50 con la crescita massiccia del lavoro femminile la Svezia ha iniziato a investire in servizi sociali e per l’infanzia. In Italia questo non è MAI avvenuto, fatta eccezione per la fine degli anni 90 quando con Livia Turco come ministro alla solidarietà sociale si è arrivati alla legge sui congedi parentali, sui servizi innovativi per l’infanzia e infine alla legge 328 anche per anziani e disabili. Quello doveva essere uno spartiacque da sostenere, ma così non è stato. E non possiamo lamentarci del calo della fecondità se le donne, pilastro del welfare italiano, oggi non ce la fanno più a reggere questo carico di cura. Invece si è andati avanti facendo finta di nulla per decenni, pensando che le donne si sarebbero fatte carico (come hanno sempre fatto) prima da madri e poi da nonne. Ma caricarsene da nonne oggi sta diventando un punto di non ritorno. Perché ormai stanno diventando nonne (pilastro di questa catena di solidarietà femminile su cui si è basata la permanenza delle donne nel mercato del lavoro italiano) nuove generazioni, che vedono la loro età pensionabile alzarsi a 67 anni. Nello stesso tempo la speranza di vita è cresciuta, e queste nonne oltre a doversi fare carico della cura di figli e nipoti, vedono crescere anche la possibilità di doversi occupare anche dei loro genitori anziani non autosufficienti o disabili. Quello che si dava per scontato fosse un pilastro del welfare, anche se non se ne è mai parlato in questo paese, viene così meno.
Questo elemento di rete di solidarietà femminile che garantiva in qualche modo l’equilibrio non può più reggere, semplicemente perché non ha più le basi demografiche e sociali su cui reggersi.
Il calo della fecondità fa sì che la diminuzione del numero di fratelli e sorelle determini anch’essa nel tempo minore aiuto nella distribuzione del carico di cura famigliare di anziani non autosufficienti.
Ormai le donne che investono di più in cultura cercano di entrare nel mercato del lavoro ed hanno sempre meno tempo da dedicare alla cura.
Avete/abbiamo sentito qualcuno che si sta dando una strategia politica diversa per far fronte a questi cambiamenti demografici e sociali per sopperire a questo ruolo delle donne come priorità? Una strategia alternativa qui nessuno se l’è data. E questo si è già tradotto anche nel calo della fecondità.
Purtroppo su questo punto non si è ascoltati, e si arriverà ad un punto in cui a chi sarà data in carico la cura? Nei paesi nordici ci si è dati una strategia di investimento di servizi e politiche di sostegno economico. Qui in Italia no.
Quando i processi demografici si mettono in atto e si sono consolidati innestano dei cambiamenti strutturali profondissimi e sono difficilissimi da scardinare.
Per avere lo stesso numero di nati avuti in passato i ventenni di oggi dovrebbero fare quasi il doppio di nascite di quelli precedenti. Cioè 4. Ma la tendenza della fecondità è già in atto, ed è inversa.
Abbiamo già a prescindere la metà di giovani che possono avere figli, e questo è già un punto di non ritorno. Cioè a parità di numero di figli che si possono avere, abbiamo già la metà dei giovani che possono avere figli quindi già per definizione ne abbiamo la metà: possibile che nessuno dei nostri governanti si sia posto una domanda su questo?
La situazione oggi in Italia è che il Sud ha un tasso di fecondità molto più basso di quello del Nord. La Campania (laddove il sud il numero dei figli era tradizionalmente più alto) oggi ha un tasso di fecondità minore della Svezia, e questo è avvenuto perchè il Sud continua ad avere silenziosamente una fuoriuscita di giovani che vanno nel centro-nord del paese, e fuoriuscita equivale a non-nascita.
Gli immigrati fanno ancora un pochino di figli in più, anche se con la crisi anche questi numeri stanno diminuendo. Ed anche questi ultimi tendono ad andare nelle zone più ricche del paese.
Tutto questo processo è una sorta di trappola demografica, che pone il sud Italia al centro di questa. Rischiamo così che questa parte del paese veda un declino profondissimo ed irreparabile.
La questione della fecondità in Europa ha assunto oggi delle connotazioni completamente diverse rispetto al passato: se prima avevamo i paesi dove i bassi tassi ci occupazione bassi equivalevano ad un’ alta fecondità; oggi la situazione si è capovolta e tassi di occupazione alta equivalgono ad una più alta fecondità.
Oggi non si fanno figli se non si sente sicuri della possibilità di poterli mantenere in futuro: questo è diventato un elemento fondamentale.
L’occupazione femminile oggi più che mai a fronte di una povertà che esplode è un elemento di protezione dalla povertà nei confronti non solo delle famiglie ma soprattutto dei bambini, che sono un segmento che è stato fortemente colpito dalle conseguenze della crisi degli ultimi decenni e che è triplicato.
Quindi i problemi da affrontare oggi in Italia sono due:
1. LA NECESSITA’ DELLO SVILUPPO DELL’OCCUPAZIONE FEMMINILE, E QUESTO DIVENTA UN ELEMENTO FONDAMENTALE PER LA CRESCITA DELLA FECONDITA’
2. LO SVILUPPO DELL’AUTONOMIA DEI GIOVANI: NON SOLO OCCUPAZIONE FEMMINILE MA ANCHE OCCUPAZIONE GIOVANILE
A questo punto, a fronte di una situazione che non e’ solo effetto crisi ma combinazione tra un effetto della crisi ed una situazione strutturale che si è andata consolidando negli anni – anche da un punto di visto demografico – o questi fatti vengono assunti come una priorità vera del paese e non soltanto a parole o il rischio è un declino non solo demografico ma anche economico e sociale dell’intero paese.
Emerge così dal puntuale intervento della dottoressa Linda Laura Sabbadini e dagli interventi successivi della conferenza, una questione culturale che appartiene al nostro paese e che non si può più negare. E che è anche alla base del dibattito sulla parità di genere nel nostro paese da un punto di vista personale, familiare, sociale, economico e lavorativo. Un paese in cui le disuguaglianze continuano a ridursi ad un livello lentissimo ed inadeguato. Anche rispetto alle reali necessità del paese stesso. Un paese dove la child-penalty per una donna che rientra sul posto di lavoro dopo una gravidanza equivale ad un ribasso del 35% del proprio reddito potenziale nel medio periodo dopo il congedo obbligatorio parentale che va ad aggravare ulteriormente un già presente divario salariale fra uomini e donne.
A seguire la seconda parte della conferenza con l’intervento in lingua inglese di Maria Letizia Tanturri dell’Università di Padova: Low fertility and care in Italy: the gender story – Bassa fertilità e cura in Italia: storia di genere. Questo intervento va ad osservare da vicino il legame tra genere e bassa fertilità nel nostro paese rispetto al resto dell’Europa ed il possibile ruolo chiave dell’assunzione di politiche di supporto alla fertilità.
I dati ci dicono che laddove la parità di genere aumenta, aumenta anche il tasso totale di fertilità. Detto questo, in Italia questo è passato dal 2,70 del 1966 al 1,34 del 2016. IL 2016 ha inoltre visto alzarsi l’età media della prima nascita di un figlio all’età di 32 anni con un aumento di 2 anni negli ultimi 10. L’assenza di figli è inoltre aumentata drammaticamente nella fascia di età femminile 30-34 anni.
La famiglia italiana è solida ma ipertrofica, nel senso che non prevede apprezzabili modificazioni di struttura laddove invece la sua struttura è particolarmente esigente in termini di tempo richiesto. Laddove in Svezia su un totale di 100 il carico delle ore settimanali per la cura ed il lavoro domestico famigliare è in carico alle donne per il 60% in Italia lo è ancora all’80%.
Concludendo, le politiche di genere non dovrebbero (e non devono) essere un’opzione ma una necessità. Queste inoltre dovrebbero dimostrarsi per essere efficaci nella complessità dell’analisi attuale rispettivamente: chiaramente targhettizzate, consistenti, ingegnose.
La possibilità del verificarsi di questo cambiamento prevederebbe anche la necessità di iniziare a spostare un poco alla volta il focus sull’uomo anzichè sulla donna: perchè questo tipo di cultura/mentalità così arcaica è così dura a morire in Italia?
Cominciamo a chiedere anche ai nostri cari candidati uomini meglio definiti criteri di votabilità. Ricominciamo da qui.
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