Carta, polimeri, combustibili fossili, idrocolloidi, colle industriali , barattoli, tibie di cinghiale, teschi animali, protesi dentali, calchi di mani e di dita, micro-organismi, paraffina, biglietti da 5 euro, citazioni religiose, neo-sciamanesimo, numerologia, ricerca d’identità, creatività, critica ai social-networks ed alla chirurgia estetica, apocalissi varie ed eventuali, trasformazione e rivoluzione dal basso. Tutto questo è Patrizio Cavallar, nato il 22 Gennaio 1988 a Trento, in arte Baba Del Latte. Ha esposto in trentino e fuori con collettive e personali, suscitando sempre interesse per il suo lavoro sia tecnicamente che comunicativamente. Fra le sue partecipazioni Paratissima di Torino ed una personale a Milano (Monolite). E’ inoltre stato selezionato per il Premio d’Arte Giovani Industriali di Bologna. Sua una personale anche a Trento (In_da_Vudd) ed ora la sua ultima esposizione personale di pittura e scultura “il Bababestiario” a Cles, in Val di Non, suo luogo di origine. Sculture, pittore su tela e su stampe, di graffiti su muro ed incisore. Il suo curriculum è un susseguirsi di mostre e concorsi. A Paratissima (fiera di arti e fotografia contempranee, nata come manifestazione off di Artissima, fiera internazionale di arte contemporanea, è diventata in pochi anni uno degli eventi di riferimento nel panorama artistico a livello nazionale) nel 2011 ha presentato raffigurazioni di mani che si cercano, braccia crocifisse, pugni che reggono scheletri di ombrelli: la critica lo accoglie con entusiasmo, definendo le sue rappresentazioni “tese, realistiche, cariche di lotta, di sofferenza e, al tempo stesso, di speranza.” Si diploma in oreficeria e arte di metalli all’Istituto Vittoria di Trento, prosegue gli studi laureandosi con 110 al corso di scultura presso l’Accademia delle Belle Arti a Bologna nel 2011.
“Che ‘n dighest? L’è piasest? Dighe che i investa!” (Che ne dici? E’ piaciuto? Digli che investano!)
“Sì, i ha dit che l’è na bela roba. Dài. Provan a veder…” (Sì, hanno detto che è una bella cosa. Proviamo a vedere…)
Ci incontriamo con Patrizio Cavallar, in arte Baba del Latte, nel luogo dove per la prima volta abbiamo visto le opere di Patrizio esposte: siamo a Cles (suo paese di origine e luogo dove vive attualmente) al Minicaseificio “la Cucola” (piccola attività in un luogo suggestivo di antichi vòlti in pietra, appena aperta con prodotti di qualità a chilometro zero). Qui ci siamo conosciuti in occasione della sua recentissima mostra di pittura e scultura “il Bababestiario” che al momento dell’intervista è ancora in esposizione ed aperta al pubblico. Lo stralcio della conversazione è con un anziano del posto che è venuto a visitarla. E noi trentini sappiamo che quando qui si dice “Provan a veder” comunque ciò che è stato visto è piaciuto, e ha rotto il ghiaccio della diffidenza locale. Perché per noi trentini “i ha dit che l’è ‘na bela roba” equivale a “hanno detto che è una figata” per il resto d’Italia. E “provan a veder” è quasi una dichiarazione d’amore…
Intervista di Marika & Masha Mottes
Foto Francesco Franzoi

- Tutte le volte rimango sempre stupito quando la gente mi apprezza a casa. Di solito sono apprezzato di più fuori dal Trentino, soprattutto per le sculture. Ma sono rimasto proprio contento che sono arrivato a piacere anche qui, ed anche alla terza età! Certamente mi fa piacere che mi apprezzino i giovani, ma l’interesse delle persone più anziane del posto mi lascia sempre piacevolmente stupito. Sono stati colpiti molto dalle sculture.
- Mari: Forse è il tuo approccio all’utilizzo dei materiali, insieme al fatto che si possono ricondurre in qualche modo a degli archetipi… (il termine viene usato per indicare, in ambito filosofico, la forma preesistente e primitiva di un pensiero; in psicologia analitica da Jung ed altri autori, per indicare le idee innate e predeterminate dell’inconscio umano, ndr) … riesci a toccare certe loro corde interiori.
- Le mie sculture hanno un linguaggio diverso, hanno delle tematiche più estreme, ed anche visivamente sono più difficili da digerire. Eppure sono piaciute comunque, forse addirittura di più. Credo che i i miei quadri siano non tanto più semplici, ma di certo meno forti. Ed anche più facili da vedere e da “tenere in casa”. Questo apprezzamento locale delle mie opere con un messaggio anche tosto, mi ha fatto particolarmente piacere.
- Mari: La tua ultima personale è esposta in un luogo privato, il Minicaseificio “la Cucola” di Cles, il tuo paese di origine ed in cui vivi attualmente. Quanto è importante per te “mettersi insieme per fare qualcosa”?
- Secondo me lo spirito di condivisione e di collaborazione fra le persone, fuori dalle istituzioni, è fondamentale. Fra gli artisti, i luoghi e la gente. E’ un peccato perché ci sono tante persone che fanno delle cose interessanti fuori dai circuiti istituzionali o di associazionismo, ma spesso rimane tutto un po’ separato, limitato ad una piccola cerchia di conoscenti. Certamente queste sono funzionali, ma anche limitanti . E poi c’è il discorso economico. Il laboratorio che avevo per esempio era sotto circolo Arci, ma nel momento in cui non c’era più entrata di tessere perché il mio spirito era più orientato alla creazione che all’associazionismo, ho dovuto prendere una decisione e chiuderlo. Ed anche per quanto riguarda il digitale bisogna stare attenti: bisognerebbe sfruttarne le potenzialità senza farsi travolgere e fagocitare completamente dal virtuale. E’ un’arma a doppio taglio. Sarebbe bello poter spingere di più nella direzione della creatività, del creare, con meno compromessi. Ho fatto la mia tesi nel 2011 su una tematica simile: “Le forme di devianza e la trasformazione da essere umano a prodotto” ; quindi legata direttamente al mio lavoro di scultura e soprattutto legata al mondo virtuale, ai social media ed alla compravendita di dati on-line…
- Mari: Un tema oggi attualissimo, che hai in un certo qual modo precorso con questa tua tesi con un anticipo temporale di quasi 10 anni (vedi lo scandalo recentissimo di Cambridge Analytica l’azienda che aveva deliberatamente acquisito e rivenduto dati personali di utenti su Facebook, ndr)
- In realtà al tempo mi hanno dato dell’anarcoide, cose tipo “eccone un altro che arriva a criticare a fare e a dire”. E invece alla fine poi anche quello è stato un lavoro che è stato molto molto apprezzato.
- Masha: Come funziona la creazione della tesi nel tuo indirizzo specifico? Si compone di più parti?
- La tesi è molto libera nell’interpretazione che puoi dare. Io che ho fatto scultura ho deciso di creare e fare una serie di sculture e poi legarle alla parte scritta, che sostanzialmente si è articolata nella spiegazione delle opere. Poi la mostra ha girato un po’. Una parte è andata ad una galleria di Firenze, dove poi però alla fine non siamo andati d’accordo perché oltre a chiedere la percentuale sul prezzo che io ho fatto, che ci può stare, cacciavano altri cinquecento euro al cliente oltre a chiedermi la percentuale… ti dico: così non mi è piaciuto tanto. Se c’è onestà e si guadagna tutti mi va bene, però così no… L’aspetto economico è sempre un tasto un po’ delicato, sia buono che negativo, quando si parla di arte.
- Mari: E’ un po’ il tasto dolente dell’arte in un certo senso…
- Purtroppo sì, la creatività in generale cozza un pochino con l’economia. Anche se c’è da dire e bisogna dirlo, pagare un lavoro creativo è il modo giusto di dargli il suo valore.
- Mari: Questa forse è una cosa anche un po’ italiana, tu che ne pensi?
- Forse sì, nel senso che all’estero si ha meno paura e anche vergogna di spendere per la creatività, perché questa é riconosciuta come un mestiere, come un lavoro vero e proprio. Qui da noi l’arte difficilmente è percepita così. Qui invece mi è capitato perfino che mi venissero a chiedere perché non ero lì a lavorare alla consegna che mi era stata data, o che mi dicessero addirittura che avrei dovuto mettere più o meno colore, e quale… Non capisco perché è cosi difficile far capire che questa è una professione – Non voglio fare il figo, lungi da me, ma questo è il mio lavoro: io sono un professionista. E’ come se uno andasse dall’idraulico a spiegargli come tirare i tubi: lì nessuno lo farebbe mai. In Italia in generale, ma soprattutto qui in Trentino. Non è un lavoro come un altro, ma è un lavoro. Soprattutto, questo mancato riconoscimento è mortificante. Magari tutti mi dicono “bravo bravo” e magari comprano anche, però viene sempre preso come un gioco, un hobby tipo fare del decoupage.
- Masha: Ma dietro ci sono anni di studio, preparazione, impegno, tempo, fatiche… come in qualsiasi altro mestiere!
- Si mescolano le due cose, perché per me è sia un bisogno sia una professione. Nel mio caso io davvero non so fare altro, e inoltre per me è un’esigenza quasi fisica. E’ il mio modo di comunicare. Posso parlare, ma quello che riesco a dire veramente è in quello che faccio. Se guardi i miei quadri sono abbastanza oscuri, cupi. Io in realtà ho un carattere abbastanza solare e socievole, ma se non dipingessi non lo so come sarei, perché tutta quella parte di me non avrebbe modo di uscire fuori. E’ il mio modo di dire le cose con sincerità.

Gesso a base acrilica e pietra su tela
100×50 cm
anno:2008
- Mari: Dell’arte contemporanea quindi, che è anche quella che tu fai, cosa vorresti dire?
- Per me l’unico elemento per far sì che l’arte moderna si possa definire arte, è la sincerità. L’essere veri. Non necessariamente queste due cose sono legate alla qualità o non qualità di un’opera o di un’installazione… Nel senso che un’opera d’arte moderna può essere di grande qualità, tecnica ed anche visiva. Ma questo non ha niente a che vedere con la sincerità dell’opera. E’ difficile oggi riuscire a capire quando un intervento artistico è sincero, perché tutto è talmente mescolato con il discorso economico, pubblicitario, promozionale ed autoreferenziale. Se questa è l’arte mainstream, non so che cosa dire. Perché sfruttare uno spazio creativo come alcuni artisti del cosiddetto circuito mainstream hanno fatto recentemente (e che fra l’altro finiscono per rappresentare la mia categoria) in modo falso e con il solo interesse ad avere un ritorno economico e di immagine personale, mi fa incazzare. Quando alla Biennale un paio di anni fa “l’opera” presentata era uno spazio vuoto venduto a Dior ad una cifra spropositata… lì mi sono veramente scoraggiato. Ho trovato la cosa fallimentare. Prima di tutto questo è quello che abbiamo rappresentato come artisti italiani all’estero. Ed io non mi sono sentito rappresentato. E poi la transazione finanziaria fine a sé stessa spacciata per una provocazione… che delusione. Questo è marketing, non è arte. Anche la provocazione per essere provocazione deve essere sincera: va bene che sia contro, va bene che sia politicamente scorretta o qualsiasi altra cosa. Ma deve essere onesta. Sfruttare una finestra così importante sulla scena internazionale, uno spazio creativo e di comunicazione di quella portata in maniera così bassa… Una transazione finanziaria, una finta provocazione per ricchi fra ricchi fine a sé stessa, spacciata per arte. Io come artista ho vissuto tutto questo come un fallimento dell’arte contemporanea. Mi sono vergognato. Mi ha fatto male. E mi ha fatto schifo.
- Mari: Per opposti arriviamo a parlare della tua arte, Patrizio. Tu metti un sacco di messaggi dentro a quello che fai.
- Sì. I miei lavori sono sia visivamente stratificati, che a livello concettuale. C’è un filo rosso che collega un po’ tutti i miei lavori, che è l’elemento del micro: in particolare ho lavorato sull’elemento delle muffe, che sono rappresentate dagli sfondi. Con questa cosa voglio comunicare la mia visione personale, che è quella che il piccolo, anche il più piccolo ed umile e povero elemento nella natura va a rosicchiare quello che è la struttura portante, e quello che è superfluo. E soprattutto va a rosicchiare quello che è la parte concettualmente malsana, che potrebbe rappresentare l’inserimento dell’elemento umano nella società in un’ottica di giustizia sociale: il piccolo, il povero che dal suo essere visto come “niente” lentamente ma inesorabilmente prende il suo spazio, dal basso, piano piano, con tempi anche lunghissimi, riesce a portare avanti la sua ribellione.
- Mari: Dentro la tua testa, c’e un punto di arrivo da raggiungere? Uno scopo finale? Oppure è il processo in sé che ti interessa?
- La mèta non è importante, è il come ci si arriva. Non c’è un finale: c’è tutto il percorso. E’ il come, non il cosa. Penso che se dovessi arrivare un giorno a trovare lo scopo finale, pianterei lì. In realtà è un po’ la mia paura, arrivare a quello che voglio.
- Mari: Quindi la tua è una ricerca?
- Sì. Sempre e costantemente. Ricerca e ricerca di comunicare. E tecnica. Sperimentazione. Mi piacciono molto i materiali diversi: mi piace cercare, trovare, provare. Lavoro sempre con recupero, riciclo. Ed è bellissima per me questa cosa qua.
- Mari: Quali sono i tuoi strumenti? La stratificazione attraverso la bruciatura, ad esempio, come si realizza?
- Ecco: pennello ne uso poco. Le bruciature vengono fatte con lo spray e le bombolette tirate con il nitro e con la benzina, e poi stratifico materiali plastici per creare tutto questo effetto appunto della muffa. Soprattutto in questo lavoro degli animali funziona così: in base a come questa sorta di cellophan si ritira con la bruciatura crea delle forme, delle macchie. Dalla macchia grande che si crea dalla bruciatura, tiro fuori il soggetto figurativo. Una sorta di pareidolia: vedere ciò che non c’è, quel fenomeno del vedere immagini riconoscibili in immagini astratte. Il mio obiettivo però non è quello di lasciare interpretare… chiaramente ognuno lo può fare, ma per me è importante il messaggio di fondo di cui parlavamo prima. Nei quadri il senso è quello delle muffe sotto di cui si parlava, il processo è il messaggio di fondo. Soprattutto quando espongo fuori dal Trentino tendo a lavorare più sull’astratto e a togliere, restando solo su questi elementi principali delle muffe e del processo; e allora lì ci puoi vedere di più il tuo. Si può fare, ma non è quello che ricerco io come messaggio. Poi ovviamente stratificandosi tecnicamente e visivamente, si stratifica anche il messaggio in base al soggetto che io gli metto sopra di volta in volta.

tecnica mistica su tela
dim. 50×35
anno 2012
- Masha: Un’opera in quanto la crei? Ce l’hai già in testa? E hai già un’idea per la tua prossima mostra dopo “il Bababestiario” ?
- Parto con i bozzetti, e poi mescolo …Disegno, stampa o frasi scritte: fermare l’idea ed il concetto che ho in testa per poi trasformarlo nella mia forma comunicativa. La prossima mostra che vorrei fare invece è solo di stampe. Che sono i lavori tra quelli che preferisco, ma anche quelli più difficili da esporre. Perché con queste tematiche un filo sottili sono anche quelle di più difficile interpretazione a conto terzi. Però sono anche quelle a cui sono un po’ più affezionato. Ci sono altre delle cose che faccio che sono più “decorative” – anche se suona male detta così. Più semplici dal punto di vista non tanto tecnico quanto comunicativo. Meno stratificate. Ecco quelle invece sono le cose che piacciono di più alla gente.
- Masha: Fai questo mestiere da moltissimo pur essendo così giovane. Quando è iniziata questa tua passione per l’arte?
- Fin da bambino. Ho sempre disegnato. Poi il liceo artistico. E nel 2005 ho fatto la prima mostra qui in Trentino in un lago in mezzo al bosco, che era andata molto bene. E da lì basta, mi sono innamorato e non ho più smesso. E devo dire anche che la mia famiglia da sempre mi ha aiutato ed incoraggiato a seguire la mia passione.

- Mari: Oltre ai quadri ed alle stampe, ci sono anche le tue sculture.
- Sì. E lì si possono trovare gli elementi della metamorfosi e della trasformazione. In questo caso, da una parte fra animale ed essere umano e dall’altra parte da essere umano a prodotto. Non è tanto l’unione tra umano e natura, ma piuttosto la trasformazione. Una metamorfosi. Anche dolorosa, sofferta. Gli elementi delle mani e delle dita sono dei calchi. La resa della tecnica è iperrealista. All’inizio lavoravo con la cera, ma potevo esporre solo d’inverno (ridiamo). Così sono passato alle resine da scenografia, ma erano costosissime. E allora ho voluto provare con la colla a caldo, e ho trovato il mio materiale. Ho contattato un’azienda che la fa a livello industriale e me la procura, la metto nelle padelle e la sciolgo per lavorarla; poi non vi dico con cosa faccio il negativo… Anche se non sono geloso delle mie tecniche, anzi le ho sempre divulgate, soprattutto nei corsi che tengo e ho tenuto nei laboratori che ho fatto sia con gli adulti che con i bambini. La gelosia in questo ambito la trovo negativa. Non è costruttiva. Non bisogna impedire agli altri di provare ad esprimersi. Tanti artisti sono estremamente gelosi delle proprie tecniche, non vogliono addirittura farsi vedere mentre lavorano. Facendo i corsi quando avevo il mio laboratorio, ho capito che se io sono stato fortunato ad imparare una tecnica nuova è bello divulgarla e dare una possibilità, uno strumento in più per esprimersi. Tutti abbiamo bisogno di dire qualcosa e di comunicare. Io ai miei corsi ho sempre cercato di toglierlo questo gradino tra insegnante e studente. Se lo fanno nei miei confronti non ho nessun problema, ho comunque il piacere di imparare; ma se l’insegnante sono io mi sento più me stesso mettendomi vicino anziché sopra a chi viene da me per imparare.

- Masha: L’esperienza dell’insegnamento e dei corsi, com’è nata?
- E’ una storia particolare. Anche veramente buffa alla fine. Nel 2008 ho fatto una mostra collettiva in Val di Sole, si chiamava “Sensazioni dal Bosco”. La mostra era a Dimaro. Io avevo portato due peni di legno giganti. Uno in erezione e uno no, il secondo con due ali fatte con dei rami. La gente del posto era molto tranquilla ed era venuta a vedere, ma ci sono stati dei turisti che si sono lamentati ed il sindaco ha deciso di chiudere la mostra. A quel punto il curatore della mostra collettiva ha chiamato i giornalisti ed è successo un casino. Siamo stati una settimana in prima pagina sui giornali locali e ne è uscito uno scandalo. Io ero stupito e me la ridevo e fra me pensavo “non succede proprio niente in Trentino per mettere due peni giganti una settimana in prima pagina”. Io non pensavo di fare scandalo, per me non c’era niente di volgare. Ci sono altri lavori miei che secondo me sono molto più scandalosi, anche se non sono espliciti e non hanno elementi sessuali. Mia nonna aveva più di 80 anni, super credente e super cattolica, e ha voluto mettere questi due cosi qui a Cles all’esterno della sua porta di casa: ci era rimasta male per me e mi aveva detto “Patrizio mettili lì perché non si dicono e non si fanno ‘ste cose: l’arte è arte”. Ero rimasto male, perché la cosa per me era veramente semplice e terra terra per me: si trattava di un riferimento alla fertilità. Questo bigottismo nel 2000 mi ha lasciato stupito. Non tanto per il fatto che sia stata chiusa, ma per il caso mediatico che gli è stato costruito intorno: i Carabinieri che sono arrivati a fare le foto con le macchinette… Sono stato contento per la solidarietà, ricordo una lettera di Arcigay di Trento e anche di altri artisti. Poi dopo la cosa è stata buttata tutta in caciara ed io mi sono tirato fuori. Il curatore aveva iniziato a portare flauti a forma di fallo, vibratori da casa per cavalcare l’onda. E’ stato tremendo. Allora io ho preso le mie cose e ho lasciato la mostra. E poi è andata a finire che questa cosa mi ha fatto un’enorme pubblicità, mi hanno chiamato finanche due anni dopo da fuori. Ed appunto l’Assessore alla Cultura di Tassullo mi ha chiamato per fare questi corsi ai bambini. Che è paradossale, ma anche bellissimo.
- Mari: Alla fine quindi tutto questo caos ha trovato il suo senso. L’esperienza del laboratorio a Tassullo con i bambini poi, come è stata?
- E’ stata un’esperienza bellissima. Apprezzata da me, ma soprattutto dalla gente. Ricevo ancora lettere dalle mamme dei bambini. Mettere insieme l’economia e l’arte è sempre una cosa dolorosa, soprattutto quando non funziona. Quando è stato chiuso il mio laboratorio a Tassullo per questioni di burocrazia mi è dispiaciuto tanto. Sono andata un po’ in crisi: l’ho vissuto come un fallimento ed ho perfino smesso di dipingere per un po’. Quando avevo aperto la mia partita iva ero orgogliosissimo; poter riuscire a pagare delle tasse e potermi mantenere grazie al mio lavoro. Era il mio passo verso la professionalizzazione. Ma invece la cosa non era gestibile, e ho deciso di chiudere. Ho scoperto recentemente che c’è un’associazione a Trento che ha una sorta di fattura annuale collettiva per artisti, danno anche assistenza legale e fiscale. Quella potrebbe essere una buona soluzione.
- Masha: E il nome Baba del Latte da dove arriva?
- Anche qui è una storia buffa. Sono sempre stato un bambino particolare. Tutti volevano fare il calciatore, l’astronauta. Io come lavoro volevo fare il rabdomante e andavo in giro con sto bastoncino a cercare l’acqua. Parlavo perfino con i sassi. Una sera a Bologna ero fuori con tutti gli amici a vedere un documentario che parlava di questo santone indiano che faceva il rabdomante e da 20 anni viveva in un albero solo con del latte. Che fra l’altro a me non piace per niente e non ne bevo. E così per ridere è nato il nome Baba del Latte. Che poi cambia nel tempo, è anche diventato Baba O Nero... ogni tanto sfuma in qualche cosa d’altro. Mi segue anche il mio nome, nelle mie trasformazioni.

penna biro e vernice su tela riciclata
dim. 60×50
anno 2011
- Mari: Il tuo rapporto con il Trentino? O meglio: il rapporto del Trentino con te?
- Sono stato a Bologna 6 anni e poi sono tornato. Il Trentino ha delle potenzialità stupende, dal punto di vista paesaggistico, del materiale, dello spazio, della creatività degli altri creativi… il problema però qui è che non vieni visto come un lavoratore. Non tanto un professionista, quanto un lavoratore. E non è nemmeno dal punto di vista dell’acquisto e della vendita. ma dal punto di vista del poter esporre, e socialmente. Essere estroverso qui per me è stata una fortuna. Sono benvoluto, soprattutto grazie al lavoro di insegnamento fatto con il laboratorio e con i bambini. Lì c’è stato un cambio anche nel modo di porsi verso di me. Ma so anche di avere delle potenzialità altre, e l’essere limitato in questo per mancanza di sensibilità mi fa soffrire molto. Sia per me, ma anche per gli altri che possono essere più simili a me e che vivono qui. La cosa bella dell’arte è che un lavoro che ti puoi portare dietro, prendi e ti porti via. Ma anche se ho sempre cercato di andare via, quando ho aperto il laboratorio era un orgoglio essere tornato e poter lavorare qui. Quando mi sono fermato a Bologna la prima volta ricordo che per me il cielo era troppo grande. E avevo fatto addirittura una serie su questa sensazione. Qui la montagna mi fa sentire più protetto, nonostante le condizioni di vita in sé siano più difficili fra temperature e tutto il resto. La sento più materna.
- Mari: La tua visione personale sull’arte in generale, qual’è?
- L’arte per me è proprio la mancanza di compromesso: è il suo bello e il suo brutto. Non ci sono sfumature di grigio. O fai o non fai. …Magari ci farò uno studio per il prossimo mio lavoro sui “pioci rifati“.*
(* “pioci rifati” è un’espressione trentina: indica i poveri che si sono arricchiti. Nel dopoguerra un po’ alla volta tutti noi italiani siamo diventati “americani” – ma non dovremmo dimenticarci mai che siamo stati gente povera e di origine umile. E che abbiamo lasciato la povertà solo da sessant’anni, ndr.)
- Mari: Trattando temi anti-convenzionali e forti allo stesso tempo, ti è mai capitato di essere censurato?
- Tornando della differenza tra decorazione ed arte, sì mi è successo. Mi è successo a Pomaria. Perchè ho portato l’unico lavoro artistico di critica, ed è stato l’unico che non è stato né fotografato né pubblicizzato sul sito. Eravamo una decina di artisti, ed ha vinto un’opera molto bella di uno scultore di Rumo. Però la mia è stata censurata. Mi ha chiamato il fotografo (che è mio amico e inoltre ha anche comprato delle mie cose perchè gli piace cosa faccio) mortificato, dicendomi che gli avevano detto di non fotografare il mio lavoro. Nell’ambito dei miei lavori sui cerchi delle botti, ne ho fatto uno con dentro una radice da cui usciva una mela scolpita nel legno che aveva un taglio e dei denti (mi hanno regalato una scatola di protesi dentali). I denti li avevo sporcati di nero perché sembrassero vecchi. E la mela mordeva la mano del raccoglitore in un’ottica di scambio di ruoli e di metamorfosi. Era un’opera di critica al trattamento chimico e dei veleni sulle piante, che diventa anche una critica sociale dove c’è una sorta di “vendetta” della natura dove non è più l’uomo a mangiare la mela ma il contrario. Il titolo era “La rivincita della mela”. Io non sapevo che le opere sarebbero state fotografate e pubblicizzate, l’ho saputo da questo amico. Quindi non l’ho fatto per avere visibilità. Devo dire ci sono rimasto un po’ male. Anche perché non mi è stato detto nulla. Ed è l’unica volta che mi è successo da parte dell’organizzazione. Io rispetto l’idea del concorso, e non discuto la scelta della giuria. Ma l’esclusione mi ha fatto restare male. Anche perché io di mio preferisco la critica costruttiva alla lode. Perché del bravo bravo non me ne faccio niente. Da una critica costruttiva posso tirarci fuori tantissimo invece. E anche imparare qualcosa.
- Mari: Sei sempre alla ricerca, l’abbiamo detto. Sia in campo concettuale, che creativo e sperimentale. Qual’è la cosa che ti fa da spinta interiore?
- Per me l’insoddisfazione rispetto a ciò che si fa, è la benzina del motore dell’arte. Nel senso di non essere mai soddisfatti al 100%. Di voler fare sempre qualcosa di meglio e di diverso da quanto fatto in precedenza. Perché chi si ferma è perduto. E’ proprio così. Bisogna continuare a creare cose. Cose nuove. Perché quando l’arte diventa una cosa ripetitiva, diventa anche noiosa. E quando è così, non comunica più nulla a nessuno. E se non comunica, non è più arte – Per questo vi ripeto, per me la cosa più importante, è la sincerità dell’opera.
Sito Web http://babadellatte.blogspot.it/
Pagina Facebook Baba del Latte


Il Minicaseificio “la Cucola” di Cles ha appena aperto ed è in fase di transizione, con il progetto futuro di costruire una nuova stalla dove ospitare gli animali. Prodotti deliziosi genuini e locali a chilometro zero, vendita diretta al dettaglio e passaparola. Orari: basta venire!
Mescolare gli spazi non convenzionali per creare un tipo diverso di gallerie come e’ stato fatto qui ora nel minicaseificio, dove le opere di Patrizio si inseriscono perfettamente e vengono risaltate al massimo dando a loro volta risalto agli ambienti che le ospitano, è un’opportunità in più ed un modo nuovo per essere più collaborativi e creativi.
Andate a vedere!