La mia casa era in un albergo un milione di anni fa.
Come fossi davanti ad un acquario guardavo la varietà delle persone, come fossero tanti pesci colorati: vecchine dai capelli turchini che si facevano chiamare signorina, distinti signori sempre vestiti con la giacca: medici, avvocati, dottori, bambini con il moccio al naso, bambine con le trecce, ragazzi e ragazze che quando ero adolescente mi incuriosivano ma mi mettevano paura, donne e uomini con lo sguardo assente che fumavano mille sigarette e venivano in montagna per riposare.
Abitudini domestiche poche.
Forse per questo non sono mai riuscita a crearmene di abitudini domestiche.
Cucino a singhiozzo, trasloco quasi ogni anno da 5 anni a questa parte. Forse per questo imprinting confuso e disordinato con gli anni ho associato le sensazioni che mi trasmettono alcune persone con il sentirmi a casa più che vivere in uno spazio fisico.
Non che non ci abbia mai pensato a come la immagino la mia casa: su due piani con un grande giardino, azul come la casa di Frida che ho visitato in Messico. Con le piastrelle per terra in cucina, con quei motivi a mosaico e con il soffitto color senape. Con tanta luce, i piatti e le ceramiche spaiate, quel caos ordinato di chi sembra aver messo tante cose diverse insieme ma non per caso. Forse un caminetto, tanti libri, tanti quadri, tanti fiori.
Per ora non l’ho ancora trovata la mia casa. Magari un giorno ci incontreremo!