LIVINGWOMEN INCONTRA MAS DEL SARO

Il viaggio di livingwomen sul territorio Trentino alla ricerca di realtà alternative continua con il racconto di un’altra donna coraggiosa, e ci porta nuovamente in Val dei Mocheni. È sempre bello tornare qui, nella valle incantata e selvaggia, tra prati e boschi, tra abitazioni, rifugi e masi. È un sabato mattina mite e raggiungiamo dapprima la frazione di Mala di S. Orsola (circa 20 minuti da Trento) e poi, seguendo le indicazioni, raggiungiamo il Mas del Saro, passando tra stradine in mezzo alle case e per un ultimo tratto esclusivamente attraverso il bosco.

Vea ci accoglie con il suo sorriso caldo e gli occhi luminosi di chi ha davvero piacere di fare dell’ospitalità una professione. Già da fuori si respira un senso di libertà. Il gatto rincorso dal coniglio che si arrampica sul tetto, il cane che ci saluta, il silenzio rotto dal belato delle pecore. Il maso è avvolto dal legno. Sedersi, poter toccare il legno vivo dei tavoli che cattura il calore delle nostre mani, poterlo anche calpestare, ti fa venire voglia di essere scalzo: è un’immersione totale nella bellezza.

Entriamo e ci raggiunge al tavolo portando caffè e focaccia fatta da lei, ed è così che ha inizio la nostra chiacchierata.


  • Che impiego avevate nella vita professionale precedente a questa esperienza? Trovate che qualcosa che apparteneva al “prima” si sia rivelato utile in tutto ciò che fate oggi?
  • Sono laureata in scienze politiche a Firenze. La mia è una famiglia di insegnanti, quindi dipendenti pubblici. Sono cresciuta in città, vita di appartamento, vacanze lunghe d’estate. Lo dico perché questo è il mio background e mi ha molto influenzata come indirizzo da prendere nel mio percorso di vita. Pensavo che anche io avrei fatto un tipo di vita come quello. Quindi ho iniziato gli studi universitari fino alla laurea. Ho avuto dei momenti in cui mi chiedevo se era davvero ciò che volevo fare, ma nel complesso sono andata avanti senza scossoni. Credo che ad ognuno arrivi in momenti diversi quella specie di lampo in cui capisci veramente; a qualcuno forse non arriverà mai, ma per fortuna a me è arrivato. Finita l’università mi sono trasferita in Trentino perché ho conosciuto mio marito, che era ed è tuttora un giornalista; quindi abbiamo iniziato a fare delle scelte, fra le quali quella che ci ha portato qui. Ma diciamo che spesso sono state scelte casuali, quasi non guidate da un progetto ben definito. Questo lo dico perché la mia non è una di quelle classiche storie, dietro cui c’è un sogno coltivato da quando eri bambino, anzi, vi posso dire che ancora adesso alle volte mi fermo a pensare a tutto e dico: “Madonna, me lo avessero detto quando avevo 20 anni non ci avrei creduto!” Mio padre addirittura ad un certo punto della mia giovinezza ha comprato una casa in campagna ed io l’ho odiato, quindi possiamo partire da lì per capire quanto questo percorso sia stato frutto di un’evoluzione in un certo senso inaspettata. Comunque mio padre era altoatesino, quindi, quando mi sono trasferita in Trentino, ero anche abbastanza attratta da queste zone che per me sono le zone dell’infanzia e che amavo molto. Ho cominciato a cercare lavoro nella pubblica amministrazione o cose analoghe: alla fine sono entrata in Provincia con un contratto triennale  e ho iniziato quello che pensavo dovesse essere il mio percorso.
la Vea – Polaroid di Lucia Semprebon
  • Qual è stato il percorso che vi ha portato qui, e come mai proprio Mas del Saro?
  • Nel frattempo abbiamo comprato questa casa, che mio marito ha voluto fortemente; la cosa è stata così: cercavamo una moto sul giornale Bazar e abbiamo visto questo annuncio “per amanti della natura, casa in Val dei Mocheni”. Siamo arrivati qui e naturalmente il posto non era come è ora; devo dire che a me mi è preso un po’ male lì per lì, perché allora ero ancora…diciamo una “town girl”. Intorno era tutto bosco, fino a ridosso della casa. Mio marito invece ci ha visto lungo e mi ha detto: “io voglio venire a stare qua, tu che fai, vieni?” Era l’ultimo anno delle lire e questo ci ha sicuramente aiutato nella decisione. Quindi abbiamo deciso: il primo anno è stato un po’ duro, ma ho perseverato, anche perché siamo amanti della montagna, ci piace fare trekking e abbiamo continuato a fare la nostra vita, lui il suo lavoro con orari allucinanti, io il mio impiego in Provincia. Poi sono arrivati i figli. Il fatto di abitare qui ha iniziato a scavarmi dentro ed io sono andata lentamente, ma quasi inesorabilmente, in crisi.

Ho capito che quel lavoro non faceva per me, ma ho dovuto affondare per capirlo, perché invece io pensavo proprio che sarebbe stata la mia strada, davo per scontato che avrei fatto quella vita lì. Una volta dentro l’ente pubblico ho capito che mi sentivo schiacciata e compressa: so che detto così può suonare un lusso, ma infine credo che anche quel lavoro lì non sia per tutti. Ad esempio mia madre quando viene qui mi dice che lei al mio posto a trovarsi in un lavoro come quello che ora è il mio, a prendere delle decisioni quasi minuto per minuto e “costruire” tutto, morirebbe; per lei gli orari, i ritmi scanditi e tante altre cose che fanno parte del lavoro in un ente pubblico sono stati rassicuranti. Evidentemente per me era il contrario: sono arrivata ad un punto in cui stato proprio male, non so se me ne sarei accorta veramente se dall’altra non avessi anche avuto la situazione di abitare qui. Il fatto di vivere qui e scoprire tutta questa dimensione che non avevo mai avuto nella vita, ovvero il contatto con la natura (che sembra un po’ abusato ora come concetto) ma nel significato più concreto del termine; ero qui e nel bene nel male.

Comprese le difficoltà ad esempio, legate anche al fatto che nevica, banalmente, il che incide nel ritmo della quotidianità. Quando poi sono rimasta incinta della terza figlia la crisi si è aggravata, diciamo anche che non mi piaceva il modo in cui stavo facendo la mamma: tutti e due lavoravamo a Trento, i nonni erano sempre sotto, ricorrevamo a baby sitter, insomma, un trambusto! Anche lì ho cominciato a pensare. Non era come avevo immaginato che avrei fatto la mamma, anche se non è che avessi ben chiaro come volevo farla. Ma avevo ben chiaro come non volevo farla (io faccio sempre così parto da quello che non voglio, poi quello che voglio arriva dopo). Giunta a questo punto ho pensato di smettere di lavorare (cosa che ho potuto fare grazie anche alla professione di mio marito).

Abbiamo fatto due conti e capito che era possibile. Ecco, dal punto di vista emotivo, questo è stato per me forse il momento più duro, perché comunque trovarsi a più di 30 anni a dirsi quello che ho fatto fino ad ora non era quello che volevo fare, dover dire a te stessa e agli altri RESET, fare i conti con tantissime energie, tantissimi anni buttati… (perché io in quel momento percepivo proprio questo). Il mio pensiero era quello di aver investito gli anni della mia giovinezza in cose che in realtà non mi piacevano. Ma poi, essendo un’ ottimista, ho superato e anche rivisto questo concetto.

Una volta a casa con i figli ho cominciato a fare delle cose pratiche, introducendo una dimensione che fino a quel momento nella mia vita non era stata quasi per niente presente: cresciuta in città dove in famiglia trovavo sempre pronto e mi facevano (quasi) tutto, ho cominciato proprio a fare cose con le mani. E ho visto che questo mi piaceva e mi venivano pure.

La prima cosa che mi ha smossa dentro è stato iniziare a fare il pane, poi ho cominciato a mettere le mani in terra con l’orto e da lì è stato un piano inclinato: ho detto a mio marito che dovevamo comprare i terreni intorno al maso (due boschi di abeti) che non erano nostri. Siamo miracolosamente riusciti a comprarli e da lì ho aperto partita iva agricola e per qualche anno ho esclusivamente fatto azienda agricola, coltivando e vendendo gli ortaggi al mercato. Parallelamente ho cominciato a formarmi tantissimo. Ecco lì è tornato utile il mio lungo periodo di studi.

Sono partita da zero su tutto, capendo e anche sbagliando (non sai quanto, gestendo le frustrazioni ecc.) ma la determinazione, l’essere metodica, avere gli strumenti culturali e formativi per interpretare le cose è stato fondamentale.

In questo mondo fino ad allora a me sconosciuto, dalla semina all’allevamento (perché poi ci ho messo anche quello), il mio background mi ha aiutata molto, nel senso che riuscivo con la mia forma mentis ad apprendere la parte teorica. Sulla pratica devo dire poi che ho imparato anche chiedendo: in questo senso ho trovato apertura e collaborazione da parte dei trentini. Certo dipende anche da come ti poni, ma le persone sono orgogliose di quello che fanno, e se la richiesta è “autentica” (chiedo a te perché mi piace come lo fai e come ti sta venendo), tutto diventa scambio. E poi lo studio, la pratica, la perseveranza.

Mio marito qui al maso mi aiuta in sala, ha tantissima passione ed è una spalla anche nella vita pratica, perché qui il confine tra lavoro e vita è molto sottile, così come quello tra luci e ombre. Comunque continua a fare il suo lavoro, spesso lui dice che ha due lavori a tempo pieno e probabilmente ha ragione. Dall’azienda agricola ad un certo punto siamo arrivati all’agritur. E’ stato il primo investimento grosso.

Circa 4 anni fa, conti alla mano, valutate tutte le rinunce e i sacrifici fatti fino a quel momento, volevo dare importanza all’attività e farla crescere.Volevo qualcosa di più strutturato e qui mio marito è andato un po’ in crisi: l’incognita di aggiungere un altro mutuo senza certezza (qui nessuno ti dà la certezza che tutto ciò possa funzionare), il timore di mettere a rischio l’equilibrio di tutta la famiglia, tutto era davvero una sfida.

Io però sentivo dentro di me che avrebbe funzionato. Il mio obiettivo era trovare le risorse economiche e avere le materie prime per fare in modo che il progetto stesse in piedi, ancora una volta la retribuzione del mio lavoro passava in secondo piano, che da un lato è un’ ottica da cui nel tempo bisogna assolutamente smarcarsi, però è quella che alle volte bisogna avere per intraprendere la sfida dell’impresa.

Abbiamo scelto di creare un agritur vegetariano. Anche questa è stata una scelta su cui abbiamo perso un po’ di notti, perché già il posto era isolato in più metterci questo altro vincolo… ma noi eravamo già vegetariani da qualche anno ormai. Abbiamo pensato che in un’attività così piccola e molto personale, dove il valore aggiunto sei anche tu e quanto é personalizzato l’ambiente, non poteva reggere una scelta che non ci rispecchiasse in maniera veritiera.

In cucina ci sono io e tutto quello che cucino mi piace, diversamente mi sarei dovuta sforzare; ma allo stesso tempo avrei dovuto fare qualcosa che non sentivo. Inoltre sono certa che con l’opportunità e l’utilizzo dei social l’autenticità passi anche da lì, diversamente sarebbe stato chiaro da subito a tutti che c’era qualcosa che non mi apparteneva.


  • Come immagini il futuro della montagna, in chiave di cambiamento climatico e cosa in generale può offrire la montagna in un’ottica di modernità?

Come spero che sarà? Purtroppo il cambiamento climatico è in atto ed è molto più veloce di quello che possiamo immaginare.

Anch’io negli anni l’ho potuto vedere: gli ultimi inverni sono stati abbastanza senza neve, piuttosto miti.

Credo che nel futuro si dovrà arrivare alla riconversione di stazione sciistiche di bassa quota, ho visto un bell’esempio in Austria di riconversione: un posto che è stato dedicato al trekking di bassa quota – al netto del disastro che c’è stato quest’anno (il fenomeno degli schianti è stato molto forte in Val dei Mocheni) – credo che anche questa zona si presterebbe molto.

C’è sicuramente bisogno di saper immaginare le cose in un modo diverso e forse di uscire da certe logiche superate; in questo credo che nelle realtà piccole le amministrazioni, se hanno delle visioni e le perseguono, potranno fare la differenza.

Individualmente invece la montagna secondo me è un po’ come il mare: ambienti dal punto di vista naturale un po’ estremi, nel senso che se scegli di viverci a contatto ravvicinato hai un certo tipo di energia e di visione; spero che anche questo modo di vedere possa aiutare a preservare l’ambiente.

  • Questo posto, la vostra vita letta attraverso il vostro bellissimo blog sembra anche un’ode alla lentezza. Il trascorrere del tempo, la lentezza che peso hanno qui?

La lentezza è un obiettivo. Sicuramente un tipo di vita come quella che conduco è realmente più lenta in tutta una serie di aspetti, perché è una vita talmente legata al ritmo degli animali, delle piante…  il cibo viene fatto in un certo modo, quindi sì è tutto più lento: necessariamente più lento però è una lentezza non vuota, è un pieno più che un veloce. È lento e molto pieno.

Credo che fosse così anche una volta, anzi una volta ci voleva anche di più naturalmente, perché non c’erano gli strumenti che abbiamo a disposizione oggi. L’obiettivo che avevamo noi qua era proprio quello di riportare questo posto ad essere un maso, che è un concetto che sento più vicino rispetto a quello dell’azienda agricola. La nostra idea era quella del maso cioè un’unità in parte, se non del tutto, autosufficiente. Quindi dove è presente un po’ di tutto, un po’ di animali, un po’ di piante … tante cose. Piccolo ma variegato, cosa che complica anche la vita nella gestione.

Tornando alla lentezza, non è facile passare questo concetto: nel senso che sì, ti ci vuole tanto tempo per realizzare il prodotto nel pane come ad esempio nel filato, però quel tempo è denso. Di questo mi accorgo molto quando viene mia madre e me lo fa notare: io ormai sono entrata nel meccanismo, per me certe cose sono ovvie. Lei, ad esempio quando si parla di cibo, mi dice: “però adesso non mi dire che dobbiamo partire dal seme, andare a prendere le cose ecc.” Lei è abituata ad avere tutto nel frigo, per me il frigo è quasi sempre vuoto; d’estate poi ci tengo pochissime cose. Allora mi rendo conto della diversità e di quanto imparare a fare delle cose ti renda libero: è una strada senza ritorno e rompe per certi versi la logica del consumismo che ti fa pensare di non essere capace di fare delle cose.


Forse questo concetto è anche rafforzato dalle generazioni prima, tipo quella di mia madre. Ad esempio io ho utilizzato i pannolini lavabili, lei era contraria perché femminista e lo vedeva come una fatica inutile, nel frattempo però è arrivata l’asciugatrice quindi con uno sforzo relativo potevo sostenere una scelta diversa.

Credo che ci siano delle cose che fanno parte della nostra biologia e che se le hai fatte non puoi più farne a meno, ma è un discorso che ha un equilibrio molto delicato, soprattutto nei confronti del ruolo della donna che poi può essere spinto nella direzione del regresso, cosa che non sposo assolutamente. Il concetto è veramente quello di avere accesso a delle pratiche e riuscire ad utilizzarle.

Per fare un esempio eclatante: io me ne sono accorta con il sapone, credevo avesse dei processi complicatissimi, ma non è così; ed ora lo produco riciclando l’olio dell’agritur. E’ composto da grasso, soda caustica e acqua, quindi si tratta di una cosa veramente basica, ma ormai siamo così ignoranti e scollegati ed io, senza spingersi nei discorsi della teoria del complotto, credo che questo sia nell’ottica di un sistema dove dobbiamo essere consumatori. Per questo mi piace fare i corsi del pane.  

  • Lentezza è bellezza?
  • La pienezza lenta è bellezza, non vorrei far passare il concetto di lentezza vuota che trovo un concetto un po’ estremo, lo associo ad un bellissimo film, Into the Wild, che però non ha un finale positivo.
  • Una cosa che ti manca della vita prima di arrivare in questo contesto più solitario e una cosa attuale alla quale non rinuncereste mai.
  • Mancare non mi manca niente, ho solo un paio di rimpianti rispetto a delle cose che avrei potuto fare e che ora, almeno momentaneamente, non sono nella condizione di fare. Nella fase della formazione il rimpianto è quello di non aver trascorso un periodo lungo all’estero. L’altro è di non aver fatto una stagione in malga, ora sulla stagione in malga magari da vecchia potrò rimediare, sull’altra cosa non so (ride). Sulla cosa legata alla mia vita attuale alla quale non rinuncerei più, davvero: tutto! Non riesco ad immaginarmi in un contesto diverso, ci capita una volta all’anno di viaggiare all’estero (anche viaggi lunghi grazie anche alle conoscenze che facciamo attraverso la rete dei woofer) ma quando torno qui mi sembra davvero di rientrare nei miei vestiti, per usare una metafora. Forse è emerso prima: non mi piace tanto il modo in cui mediaticamente viene presentato questo tipo di vita, siccome, diciamolo, in questo momento è anche un po’ di moda, è un argomento che conquista molto. La scelta di vita di tornare alla natura: trovo che il modo in cui viene presentata, nella maggioranza dei casi, non sia così corrispondente a quello che io percepisco come la mia realtà, pur comprendendo il bisogno di semplificazione che la comunicazione richiede. Qui non si parla di un ritorno al passato, con una vita fatta di meno impegni, non è questo, questo non è reale. Il mio percorso, come detto prima, legato moltissimo anche al caso o comunque al susseguirsi di una serie di coincidenze che poi sono diventate scelte di vita, è legato a riconnettersi con una serie di cose che fanno parte della nostra biologia, ma non vuol dire vivere nella tradizione e nel passato, rinunciando alla modernità. Il progresso c’è stato e non bisogna negarlo, lo dico anche da donna e come donna. Il “si stava meglio quando si stava peggio” per me è No!
  • Il progetto bollait – gente della lana, un progetto di recupero che coinvolge la Valle dei Mocheni, vi vede come partner fondatori, ci puoi raccontare cosa c’è fra il pascolo e il gomitolo?
  • Tanto lavoro: lavoro lento e fino. Questa cosa è nata, anche questa,  un po’ per fortuna e un po’ per passione. Io sono appassionatissima della lana e, come me, altre tre o quattro donne qui della valle, che è una cosa anche abbastanza particolare dato che è una Valle abbastanza piccola e trovarci in 4 o 5 proprio qui e tutte che sanno fare qualcosa e con una passione che riguarda proprio la lana!  Chi fila, chi fa feltro, chi tinge… diciamo che è nata a livello semi-hobbistico. Poi continuando ci siamo rese conto che compravamo tanta lana e la compravamo in montagna; fra l’altro io e un’altra persona del progetto abbiamo le pecore in azienda. Inoltre in Trentino pecore ce ne sono molte. Da lì abbiamo iniziato a pensare di mettere su un progetto di recupero: siamo andate dal Sindaco di Palù che ci ha concesso un piccolo finanziamento per partire. Noi da allora raccogliamo la lana dai pastori, la mandiamo a lavare in Austria, poi ce la rimandano in fiocco (quindi solo lavata) o in falda (quindi anche cardata). Da lì una parte la facciamo filare e una parte facciamo questo sistema letto, per cui facciamo  produrre ad una ditta di Trento dei piumini che abbiamo chiamato “lanotti”, i guanciali letto e adesso stiamo studiando il materasso. Rimane al momento un progetto di volontariato, che dal punto di vista mediatico sta riscuotendo anche tanto successo; stiamo valutando che evoluzione può avere questa cosa, considerando anche il fatto che siamo persone che sono impegnate tutte in altre professioni, mentre questa attività richiede un impegno a tempo pieno. Siamo in una fase di valutazione, che comunque sta procedendo bene.

Guardiamo l’orologio ed è già mezzogiorno. Il tempo è letteralmente volato! Lasciamo a malincuore il maso guardando verso la valle e leggendo una preghiera scritta su un sasso, che in passato è stato usato come mantra da recitare prima di mangiare, per riportare l’attenzione sul cibo e darvi la giusta importanza. Grazie Vea per averci aperto le porte del Mas del Saro e del tuo cuore, a presto!










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