Grazie a Jörg, che ha reso possibile questo incontro.
Quando ho letto la sua poesia, ho trasecolato. Avere la possibilità di incontrarla, era cosa lontanissima dai miei pensieri. Ed invece, come nelle storie che più amiamo leggere e raccontare, l’impensabile alle volte si realizza nelle nostre vite. Roberta Dapunt è nata in Val Badia nel 1970. Ha pubblicato le raccolte di poesia OscuraMente (1993), La carezzata mela (1999), La terra più del paradiso (Einaudi, 2008) e Le beatitudini della malattia (Einaudi, 2013). Presso l’editore Folio (Vienna-Bolzano) è uscito un altro suo libro di poesie con traduzione tedesca a fronte dal titolo Nauz, in ladino con traduzione in tedesco a fronte (2012), ora ripubblicata anche con traduzione in italiano (Il ponte del Sale, 2017). Sempre per Einaudi, nel 2018, ha pubblicato la raccolta di poesie Sincope. Con Sincope, è la vincitrice del Premio Letterario Internazionale Viareggio Rèpaci 2018 per la Poesia. Moglie dello scultore Lois Anvidalfarei, scrive le sue opere in italiano ed in lingua ladina. La lingua della sua terra natia. La lingua madre. La raggiungo a Ciaminades, in Val Badia, su suo gentile invito. Arrivata al maso mi coglie un sentimento di vastità che mi pervade per tutto il tempo trascorso in quel luogo. Ed avverto una privatézza che non ritrovavo da tempo, forse anni. E’ ottobre. Il luogo è ammaliante, circondato da una natura orgogliosa, affascinante e fiera. Le montagne, i campi, i profumi. Nel giardino antistante al maso, un prato. Sparpagliate su di esso, le sculture imponenti di Lois e tre, forse quattro, mucche – altrettanto imponenti. E belle. Con un gesto automatico che ho iniziato ad odiare, tiro fuori il cellulare per scattare delle fotografie. Ma immediatamente lo ripongo nella borsa. Penso. Penso che no, questo luogo e queste emozioni non le voglio profanare con un telefonino. Questa identità ed intimità che respiro, osservo, ascolto. Sento. Vivo. Abbiamo trascorso quasi un’intera giornata insieme, con Roberta Dapunt. Per una serie di coincidenze eravamo sole al maso. Mi ha preparato un risotto delizioso. Abbiamo brindato e bevuto insieme con del vino rosso. Poi, il caffè. La visita di un amico che giunge, ospite inatteso. E’ stato intenso, tutto. Denso. Come lei. Come il suo maso. Come la sua poesia. Buona lettura.
Ciaminades Photo Gustav Willeit
su di me
Pascolo i giorni come le vacche, guardando dalla
finestra ogni tanto e conto. La riverenza a loro che mi
dovrebbero appartenere, ma io non li voglio, perché
occupano lo spazio, qui dentro il corpo amico mio.
Non ho giorni io, nel loro corso mi vesto la notte e
vegeto, bagorda di pensieri. Muovo lenta i sensi, li
distillo e colo in silenzio tristezze fermentate. Dunque
levo il calice a una veste contadina, senza intonaci sul
viso, per non correggere la mia comparsa. Di questa,
solo le mie pupille valgono, esse sanno cogliere i suoni
e risolverli nel colore che meritano. Il resto ascolta e
contempla la vita, che fuori dalla mia pelle evita i miei
passi. Perché fuori non si sente il rumore cupo della
poesia, ma dentro suona come uno schiaffo in faccia,
amico mio. Ogni volta che l’affronti.
(Dalla raccolta di poesie Sincope, Giulio Einaudi Editore, 2018)
- Ciaminades. Il maso. Abitare, vivere la montagna. Che non è la natura bucolica, ma bensì impegno e rinuncia quotidiane. E lavoro, è scelta, è fatica. E’ appartenenza. E’ resistenza. Questo appare molto chiaramente nelle sue poesie. È così che lei li vive questi suoi luoghi?
- Vivere in questi luoghi, per ciò che riguarda la mia persona, significa fare parte di una realtà per scelta e decisione. Negli anni della mia gioventù non pensavo alla mia vita concentrata qui, bensì in una città, dove succede il mondo, o così può sembrare. La scelta di rimanere nei miei luoghi di crescita comportava anche una comprensione, la coerenza e la convinzione di essere parte di una realtà. Io non sono nata in un maso, non sono cresciuta in una famiglia di contadini e quindi ho dovuto imparare tutto. L’eredità di questo maso doveva garantire anche la sua continuità rurale, tenere il bestiame, falciare i prati, curare i boschi. Ho imparato la disciplina della coerenza, la misura di una compattezza, di stabilità che la natura detta. Le stagioni, le ore del giorno, il loro ritmo che sa di essere sempre uguale, perché una stalla non permette il giorno di riposo. All’inizio non è stato facile, ma il tempo mi è stato maestro per capire che vivere in un maso non significa chiudersi dentro e dimenticare che fuori c’è il resto del mondo. Ci sono stati molti viaggi, e tutt’ora la nostra vita è animata da molto movimento, sia nostro per gli spostamenti dovuti al lavoro, che quello che avviene attraverso le molte visite e presenze amiche che arrivano a Ciaminades.
- Non è solamente lei che definisce il territorio che la circonda, ma è anche il territorio intorno che a sua volta definisce lei, e la sua poesia. Avverto una forte reciprocità, e un sentimento grande. E’ così?
- Il territorio è come le fondamenta per una casa, è molto importante. Per ogni cosa ci vogliono un luogo, una persona e un tempo. Questi sono luoghi che sicuramente non indietreggiano, che non si tirano indietro e ti mettono continuamente a confronto nella loro normalità radicale, così almeno mi piace chiamarla. È un difficile faccia a faccia, poiché l’uomo perderà prima o poi ogni gesto di sfida contro. Io non ho mai avuto intenzione di sfidare la natura, ma il ritmo dettato da questa normalità radicale, è a tutti gli effetti una sfida dell’esistenza. Esserci, qui e ora, nella misura concessa, e fare di questa la migliore esperienza possibile. Nelle difficoltà e nelle mancanze, ma anche nella bellezza e nell’opportunità di starci dentro.
- La poesia e la gente di montagna, apparentemente sembrerebbero due mondi lontanissimi. Invece io, nata e cresciuta in un paesino di montagna del Trentino, ricordo da bambina alcuni degli anziani del paese – forse anche i più saggi – che invece si esprimevano quasi esclusivamente attraverso versi. E sguardi. E’ così anche qui a Ciaminades?
- Parlare del tempo passato, ricordare cosa dicevano i nostri nonni, come si esprimevano, è senz’altro dare vita alla memoria, portarla dentro di noi e condividerla con chi ci ascolta, ascoltarla da chi ce la racconta. Ma farla propria, nostra e provare a metterla in funzione del nostro presente è molto difficile. Non ci riusciamo, abbiamo disimparato l’intelligenza di apprendere e comprendere l’antico per tradurlo nel nostro tempo. Un maso è un microcosmo che ha permesso per millenni la sopravvivenza dell’uomo nella natura. Sono cambiate molte cose, sono arrivate le macchine, ma la manualità, ciò che succede ogni giorno dentro a una stalla e sui prati, non è cambiato affatto, è una storia lunga, molto lunga che può continuare il suo racconto. E questo dipende solo da noi, da quanto rispetto riusciamo a dedicare a ciò che ci è stato consegnato. E la realtà, dovremmo urlarlo in coro tutti i giorni, ci dimostra che non ci comportiamo bene nei confronti della natura e di ciò che abbiamo imparato. E quindi, sì, l’espressione dei nostri avi, anche attraverso i versi e i vari proverbi, dovrebbero aprire i giorni e chiuderli, senza pausa.
- Sentire i limiti del proprio corpo – nella rincorsa incessante della realizzazione di tutto ciò che siamo chiamati a compiere : dall’esterno ma anche da noi stessi. Ogni giorno. Le limitazioni che il corpo ci impone, non sono proprio queste – dalle più banali alle più complesse – che ci rimettono in contatto con uno spirito che riscopriamo anch’esso fragile? Non più invincibile, ma nuovamente umano? E non è forse questa la grande potenza dell’essere fragili; la nostra umanità? Riavvicinarci al nostro Io profondo, alla Natura, al Sacro? C’è ancora secondo lei questo legame profondo tra corpo e spirito, tra fuori e dentro? Anche in questi tempi in cui fatichiamo molto a riconoscere l’altro sì, ma anche noi stessi?
- Le debolezze del corpo e dello spirito sono entrambe appartenenti all’identità che ci rappresenta. Nella nostra unità e così anche nella collettività. L’unità del corpo debole è l’io che deve confrontarsi con sé stesso e con gli altri. Siamo una società capace, ci mostriamo bravi, forti. Nell’insieme riusciamo ad essere anche potenti, dimostrando le nostre qualità e diventando persino agonistici per essere i più bravi. Ma dentro a questo “noi” c’è l’ io, che è sempre presente in ognuno di noi e ha un corpo e questo corpo ha uno spirito. Ebbene, quel corpo che può essere forte, sostenibile nella pluralità, può essere anche un corpo che non riesce, che non ce la fa a tenere il ritmo, a stare al passo con una società capace e in continua dimostrazione di se stessa. Succederà che si chiuderà in sé e diventerà un corpo in solitudine. Oppure sarà un corpo traviato, perché calpestato dall’egoismo collettivo. Ecco qui il corpo emarginato che c’era, che c’è e sarà sempre presente. Se non ce l’abbiamo qui seduto al tavolo, ce l’abbiamo nella mente, perché ieri, l’altro ieri, oggi e domani, tutti i media ci dicono che c’è. E poi andiamo per la strada e lo incontriamo. Ci guarda, ci chiede attenzione e aiuto. Lo oltrepassiamo. Questo confronto tra i corpi oggi ci succede molto più che in passato, perché eravamo abituati a confrontarci con un corpo che era più debole, menomato, malato e seduto per terra, sulle piazze e davanti alle chiese. Ora il corpo che chiede aiuto, è un corpo sano, vestito come il nostro, con le scarpe da ginnastica e la collanina d’oro. E questo è un confronto molto forte che evitiamo in tutti i modi, essendo però consapevoli. Così dimostriamo l’indifferenza, che ha preso ancora più forza, perché siamo indifferenti nella consapevolezza. Ormai non è più possibile non sapere dell’altro.
- La religione, il sacro, fanno parte della sua storia. Che spazio hanno preso nella sua vita, e quale spazio poi lei ha voluto lasciare loro? Anche nella sua arte.
- Partendo da un’educazione severa, che in famiglia e a scuola non permetteva una rinuncia di partecipazione, posso dire che la religione e il sacro hanno preso uno spazio importante della mia vita. Così la mia infanzia era accompagnata ogni giorno da un rito religioso, dalle preghiere. Crescendo ho sorpassato questi doveri lasciando tra me e loro una distanza, ma non una negazione. Tengo con me il fascino delle liturgie, i racconti e le letture, in particolare la Pasqua, e così anche il vocabolario particolare che mi circondava, che ascoltavo e mi suonava così bene. I miei versi hanno una loro topografia, sono composti anche da questo vocabolario che continuo ad amare.
- Multiculturalità. Se ne parla tantissimo. Spesso a sproposito a mio avviso. Non credo sia necessario guardare sempre lontano per avere delle risposte. E allora io le vorrei chiedere che cos’è la multiculturalità qui, in territorio ladino.
- Non parlerei di multiculturalità nel territorio ladino, bensì di pluralità linguistica. È la realtà che ci distingue, crescere con tre lingue, ormai con quattro, tra il ladino, nostra lingua madre, l’italiano, il tedesco e l’inglese. Personalmente ho difficoltà nell’identificarmi, non riesco a sentire in maniera forte l’appartenenza ladina, ma credo che questo ormai non debba più essere una preoccupazione, qualsiasi risoluzione non mi soddisferebbe. La multiculturalità invece, purtroppo constatiamo, e non solo in territorio ladino, che fa paura. In verità di lingue e di culture, di mescolanza che troppo spesso porta all’incapacità di comprendere l’altro, che si esprime diversamente, che vive in maniera altra, che avrebbe altro da raccontarci, poiché straniero a un concetto di cittadinanza fissa e convenuta, ormai superata da un’animazione mondiale. Il trasloco da una casa all’altra è stato sostituito da uno spostamento di popoli. Dovremo imparare molto ancora, per riuscire a comprendere la multiculturalità.
- In questo contesto che cosa sono per lei, nella sua vita e nella sua arte, che sono così unite, il vicino ed il lontano?
- Tra vita e poesia non faccio differenza, e come dice Lei sono per me un’unità. Succede questo anche tra il vicino e il lontano, ormai sono diventati un’unità. Mi muovo molto, sono spesso in viaggio, e la distanza tra qui e lì si è sciolta in una misura di totalità. Di interezza, di un insieme delle cose, dei luoghi, delle persone e quindi anche dello spazio tra il punto di partenza e quello di arrivo. È così anche nella poesia, a lei non importa il vicino e il lontano. Si esprimerà comunque in un’immagine, nel succedersi delle cose quotidiane, nel venire al mondo, così come nell’esalare l’ultimo respiro. Nella potenza drammatica di una guerra lontana e così anche nel suono umile degli animali che ruminano in una stalla davanti casa.
- Lei ha scritto un libro sulla malattia. (“Le beatitudini della malattia” Edizioni Einaudi. 2013). In esso racconta dell’Alzheimer. Una malattia che colpisce il corpo, ma anche la mente. Il 10 ottobre si è celebrata la “Giornata mondiale della salute mentale”, vorrei proporle questa frase in cui mi sono imbattuta recentemente: “sia benedetta la follia e tutti quelli che ne soffrono. Benedetta sia la follia di tutti coloro che lottano contro di essa con l’arma più meravigliosa e potente che esiste; l’arte”. Le chiedo il suo pensiero al riguardo.
- L’arte è meravigliosa e può essere potente sì, ma credo che parlando di malattia, in questo caso di Alzheimer, l’arma ancora più meravigliosa e potente sia la dignità. L’arte non appartiene a tutti, a molti non interessa, ma la dignità sì, essa appartiene a tutti e a tutti interessa. È però una condizione, una qualità difficile da tenere alta quando il corpo la richiede ancora di più e con più necessità e così spesso, troppo spesso, va a mancare. Penso dunque, che la malattia di Alzheimer, o la follia, come dice la frase, abbia un grande bisogno di augurio di bene, e dunque anche della benedizione.
- In ultimo, come di consueto, vorrei chiederle se c’è qualcosa che io non le ho chiesto che vorrebbe lasciare detto in questa intervista.
- Quello che potrei dire ancora è la mia ladinità nella scrittura. In questo mi identifico sicuramente, nello scrivere in italiano, poiché si esprime un’identità linguistica dentro a un’altra identità linguistica. Mi ricordo, all’inizio delle mie prime scritture in italiano, mi sentivo una figlia illegittima di questa lingua. Così mi chiedevo: posso scrivere in italiano? Posso confrontarmi? Riuscirò ad esprimermi bene e completamente? Nel frattempo ormai, ho moltiplicato i versi e le mia poesia, e una volta superati i miei dubbi e le incertezze, non ho più sentito la differenza tra lo scrivere in italiano e lo scrivere in ladino. Penso di poter dire che sento di aver compiuto uno sviluppo importante, perché ho superato qualsiasi sentimentalismo linguistico. A me interessa la poesia. Il valore poetico della parola scritta, che deve dire qualcosa, che racconta e deve dire qualcosa. Riuscire ad arrivare a questo per me è già stato un percorso importante. Cercare adesso di sostenerlo e di affilarlo ancora di più è un bel proponimento che continuo a farmi.
Ascolta Le poesie del giorno di Roberta Dapunt su Rai Radio3 – Fahreneit –

Vorrei rivolgermi a Roberta daPunt
Ho inviato un messaggio all’indirizzo email indicatomi in precedenza ma non ho avuto risposta …
ho ritrovato il libro “Frati Cari Fratelli” di W. De Concini, Trento 1983
non so se ne è ancora interessata; se sì … mi contatti pure anche per telefono o mi scriva.
Marco Giuliani
grazie dell’attenzione
cordialità
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Gentile Marco, abbiamo tolto i suoi dati personali per la privacy. Inoltreremo il suo messaggio alla mail di Roberta in nostro possesso, nella speranza di riuscire a mettervi in contatto. Ci faccia sapere! Buona serata/notte.
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