Non si capiva bene che creaturina fosse, l’omino dello stagno. Una specie di elfo, o forse di alieno. Piccolissimo, con i suoi pantaloncini rossi, viveva nello stagno. E ogni sera, al calare del sole, si sedeva solitario sul bagnasciuga con lo sguardo rivolto al cielo, in trepidante attesa dell’arrivo delle stelle.
A questo punto, si alzava lentamente per scomparire in mezzo agli altissimi fili d’erba che inghiottivano la sua minuscola figura, per poi rispuntare con una scala di legno.
Entrava nel mezzo dello stagno, piantava la sua scala nel fango sottostante la superficie d’acqua, e saliva fino all’ultimo piolo protendendo le manine in direzione delle stelle.
Stava là in quella posizione tutta la notte, e allo spuntare dell’alba riscendeva giù, spiantava la sua scala, la riponeva.
La sera dopo, e quelle seguenti ancora, avrebbe continuato a ripetere gli stessi gesti. Lo stesso rito. In silenzio. Ancora e ancora. Giorno dopo giorno. Con la stessa emozione, con la stessa immutata speranza – o forse convinzione – di poter arrivare a toccarle.
Le stelle.
