TARIQ. Figlio di un colonnello con il sogno dell’Europa

Appuntamento alle sei mezza al Porteghet di Trento.

È qui che io e Francesco aspettiamo la nostra prima “intervista”. Intanto beviamo. Ci confrontiamo su come gestire l’incontro. Io non ho domande precise, solo una. Francesco prepara la sua donna  (una canon 5D Mark III) e certamente non sta pensando a come fotografare il nostro ospite. Lui va di pancia.

Sono le sette e il nostro ospite non arriva. Probabilmente sta finendo il giro. È ora di aperitivo e i locali sono pieni di gente.

Chiediamo ai ragazzi del bar se è passato qualcuno che vende rose a cercarci. Ci rispondono che ne saranno entrati almeno cinque. Ma di noi non ha chiesto nessuno.

Decidiamo di andare a cercare la nostra intervista dove di solito ci capita di incontrarla, ristoranti o  bar del centro dove, tra un piatto e un bicchiere, si affaccia sempre un venditore di rose. Saranno una decina, li conosciamo tutti, ma io vorrei intervistare proprio lui. Perché sorride sempre.

Intravediamo qualcuno di spalle che riconosciamo da lontano. Non è la nostra intervista, ma almeno rompiamo il ghiaccio e ci scaldiamo un po’. Lo inseguiamo, lo chiamiamo:

Scusa scusa

L’uomo si gira pensando ovviamente che vogliamo comprare delle rose (e cos’altro se no?) . Me ne porge una, la prendo, la pago e gli chiedo se ha voglia di fare due chiacchiere con noi.

Possiamo bere qualcosa di caldo, solo due domande.

Ma Mohammed, che si presenta subito, ci dice che ha fretta, è stanco e sua moglie lo aspetta a casa con i suoi 2 bambini; deve prendere il bus e andare a preparare la cena.

Volevamo solo sapere da quanto tempo sei in Italia e da dove arrivi.

Solo in quel momento mi rendo conto di quanto sia difficile fermare qualcuno per strada e fargli delle domande così personali. Ci sarà della diffidenza, chi sono io per chiederti chi sei tu? E invece Mohammed ci risponde senza esitazione. Ci dice che è arrivato in Italia perché in Pakistan non c’è lavoro, la vita costa tanto e c’è crisi. Sono le stesse parole che sento dire da chi al mattino viene in ufficio e mi racconta che vuole andare in Germania perché in Italia non c’è lavoro, la vita costa tanto e c’è crisi.  

Chiedo a Mohammed se è arrivato da solo o con la famiglia. Mi dice che ha vissuto in Italia da solo per 8 anni. Poi quando i talebani hanno fatto saltare in aria la scuola elementare di Peshawar, ha deciso di far venire qui sia la moglie che i bambini. Penso ai miei figli a casa a guardare i cartoni sul divano.

A Trento sta bene, la mattina ha “contratto regolare in famiglia di Trento” , fa le pulizie. Collaboratore domestico  correggerei se fossimo in ufficio a preparare il curriculum. Il pomeriggio va a prendere le rose e comincia il giro della città.

E dove le prendi le rose?

Qui vicino  rimane sul vago.

Insisto un po’ perché sono curiosa, ma poi penso che non ci interessa scoprire il traffico trentino delle rose, ma parlare di Mohammad. Che però ha fretta. Deve prendere il bus. Ci ringrazia , ci saluta e va via.

Siamo contenti, a metà. Avevamo ancora tante domande da fare e soprattutto una foto. Pensiamo di fargliela  mentre cammina verso la sua fermata ma che senso ha raccontare la storia di spalle stanche che camminano con delle rose in mano?

Decidiamo di tornare al Porteghet, magari il nostro appuntamento ci sta aspettando.

Siamo quasi arrivati quando vediamo da lontano un sorriso poggiato su delle rose. È lui, il solito volto che incontriamo per strada o nei bar della città, un volto conosciuto ma senza un nome né una storia. E noi siamo in giro da due ore perché abbiamo deciso di conoscere quel nome e quella storia.

Ciao come stai?

Molto bene

Possiamo disturbarti? Ti va se ti facciamo delle domande?

Che domande?

Come ti chiami?

Tariq

Da dove arrivi Tariq?

Pakistan

Possiamo farci una foto?  

Tariq mi consegna tutto il bouquet pensando che Francesco voglia fotografarmi con venti rose in mano.

No Tariq insieme.

E lui sorridendo, si scusa, ha capito che deve fare lui una foto a me e Francesco  insieme al suo bellissimo bouquet di rose bianche e rosse.

No Tariq, io e te insieme. La foto la fa lui.

Tariq non se lo fa ripetere due volte, sorride, si mette in posa accanto a me e clic.

Tariq ha 42 anni. È figlio di un colonnello pakistano. È di Karachi, una città con un tasso di criminalità molto elevato. Questo me lo racconta Francesco. A Karachi il possesso di armi da fuoco è una realtà diffusa. Le tensioni sul piano politico e religioso possono scoppiare improvvisamente e condurre a disordini, attentati ed altri atti di violenza. In questi casi tutti i negozi nei quartieri interessati vengono chiusi.

Mentre Tariq parla e Francesco traduce, osservo via Suffragio. Piena di negozi e di gente che passeggia. Si respira aria natalizia.

A Karachi Tariq si è diplomato; ci racconta che viveva in una casa grandissima bellissima dove ci invita ad andare.

Se andrete in Pakistan sarete miei ospiti!

È terrone come me Tariq. È un’esigenza invitare la gente a casa , soprattutto se estranea.  E poi la sua casa è sul mare.

Anche io vengo dal mare Tariq, sono pugliese. Ma non penso che conosca la Puglia.

Come sei arrivato in Italia?

A piedi.

Da dove?

Dal Pakistan.

Lo dice come se stesse dicendo un’ovvietà. Un viaggio di un anno e mezzo. A piedi.

Io e Francesco ci guardiamo. Tariq ha la mia età.

Come si fa ad uscire da casa, in Pakistan, e a dirigersi verso l’Italia? Che strada fai? Che indicazioni segui? Cosa ti porti dietro?  Uno zainetto con?

Che strada hai fatto Tariq?

Pakistan, Iran, Turchia, Grecia, Balcani e poi Francia. Da qui Italia.

Non ho capito. È troppo immenso il mondo per pensare di percorrerlo a piedi.

Sei sposato?

Si mia moglie e i miei 4 figli sono in Pakistan.

E ovviamente sogna che un giorno arrivino qui anche loro.

Trento ha cuore grande. Qui sto bene, lavoro tutto il giorno, vivo in una residenza con altre persone del mio paese  e a pranzo vado da mio cugino che ha aperto un ristorante pakistano. Mi piacciono tanto i gelati.

Sorride sempre Tariq e racconta senza bisogno di fargli domande. Parla molto bene il francese e l’inglese, gli darei un B2 se fossimo in ufficio. L’italiano lo sta imparando da solo. Se fossimo in ufficio gli direi anche che fa bene, perché hanno bloccato i finanziamenti per i corsi di lingua italiana. Questo forse no, non glielo direi  a Tariq che continua a dire che Trento ha un cuore grande. Mentre parla mi immagino in Pakistan a vendere rose cercando di imparare da sola l’urdu. Mangiando riso patate e cozze nel ristorante pugliese di mia cugina.

Restituisco il bouquet a Tariq che vuole a tutti i costi regalarmi una rosa. Mi dice di sceglierla. Ne prendo una bianca pensando a mia figlia. Lui me ne regala un’altra rossa. Prima di salutarci gli chiedo:

Tariq cosa sognavi da bambino?

L’Europa

Una settimana dopo ho cercato il volto di Tariq nella foto dei pakistani allontanati dalla residenza Fersina. Bastano due chiacchiere per credere di conoscere un pò meglio una persona. E Tariq in quella foto per fortuna non c’era. Ma in quella di Francesco si.

Manuela & Tariq  – Photo Francesco Franzoi  


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