STORIA DI “X” (LO SAI CHE IO SONO CATTIVO?)

La prima volta che lo vidi, X aveva solo 3 anni.

Due occhi neri, profondi: era bellissimo.

Faceva merenda e mi guardava.

“Lo sai che io sono cattivo?” disse di colpo.

“Te l’hanno detto o lo hai deciso tu?”

“Sono sicuro di essere cattivo: faccio cose brutte e mi piace.

Lì per lì non mi feci grosse domande: era diventato il maggiore di due, l’asilo era

iniziato da poco… tutto secondo copione e un gran diritto di essere incazzato.

Lo rividi in prima media. La madre mi aveva parlato di un percorso disastroso:

maestre severe, anaffettive le definì.

Al terzo giorno di scuola X lanciò l’astuccio di un compagno dalla finestra.

Quindi scese in cortile e distrusse quel che riuscì.

La settimana successiva scoperchiò una presa elettrica.

Poi ammaccò il distributore di merende.

Poi ci fu il cocktail di gessi e aranciata.

Poi l’allagamento dei bagni.

La defoliazione delle siepi in cortile.

Lo skateboarding in corridoio con annessa discesa dalle scale.

Gli esperimenti di nouvelle cousine, ai limiti del vomito, in mensa.

Nel frattempo i risultati erano da allarme rosso: si concentrava per pochi minuti,

sembrava non capire le consegne.

Disegnava ossessivamente e non bene.

Consegnava in bianco.

Si nascondeva negli armadi.

Fissava la finestra come si guarda un cielo di Mirò.

I compagni smisero di invitarlo a casa loro: faceva casino, fumava…

Consigliai ai genitori di tentare i test per le difficoltà di apprendimento: succede che ragazzi non diagnosticati per tempo accumulino un vissuto di frustrazione e rabbia.

Poi arrivano i comportamenti oppositivi, i mal di pancia, le notti insonni.

E la ricetta dell’insuccesso scolastico è servita.

Dopo l’estate mi portarono il verdetto: bassa autostima, abilità funzionali borderline.  Ma soprattutto ADHD.

La neuropsichiatra fu categorica: “Sarò molto onesta, professoressa: non è una passeggiata. Ci vogliono i farmaci. Ma possiamo tentare.

E tentammo di tutto, ma fu una lenta discesa verso l’inferno.

X spesso rifiutava gli aiuti, era chiuso, impenetrabile.

A casa lo incentivavano con dei regali: ruppe diversi cellulari in pochi mesi.

Buttò più di una giacca nei cassonetti della città.

A volte rubava: un pomeriggio prese un portafoglio e ci vollero ore perché

ammettesse. Alle nove di sera mi accompagnò nel parco dove l’aveva gettato.

L’abbonamento del bus spezzato in due. La tessera della biblioteca disintegrata.

“Quelle non so come fare a ridartele: ma i soldi te li riporto domani. Se vuoi anche di più.”

Gli tenevo le mani: piangeva moltissimo.

Aveva di nuovo tre anni e si sentiva solo.

E irraggiungibile.

E sempre cattivo.

Mi diceva “Non riesco, capisci? Io dentro brucio.”

La neuropsichiatra tornò alla carica con i farmaci. La famiglia era contraria.

Non sapevo cosa dire. Non ti aspetti questo.

Hai paura che tuo figlio si ammali, puoi affrontare un incidente.

Ma chi è pronto per la follia? E non è follia, certo.

Ma è così che la vivi.

I genitori avevano scelto di non spiegare nel dettaglio a X che cosa gli succedesse.

Gli dissero semplicemente che faticava un po’ a leggere.

Che con i giusti strumenti tutto si sarebbe risolto.

Preferisco si creda delinquente piuttosto che scemo, mi disse una volta suo padre.

Finiti gli esami non lo vidi più: cambiò un paio di scuole e poi persi le sue tracce.

X è stato la mia più nera sconfitta.

Nera come i suoi occhi.

Mi manca moltissimo.

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Nobody likes me Vancouver 2014 Canadian unknown artist

X non esiste: è la somma reale di tante esperienze vissute in classe in questi anni.

Il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, ADHD in inglese, DDAI in italiano, è un disturbo evolutivo dell’autocontrollo. Esso include difficoltà di attenzione e concentrazione, di controllo degli impulsi e del livello di attività. In sostanza X non riesce a regolare il proprio comportamento in funzione del trascorrere del tempo, degli obiettivi da raggiungere e delle richieste dell’ambiente.

Non è una normale fase di crescita che si deve superare, nè il risultato di una disciplina educativa inefficace. E soprattutto non è un problema dovuto alla “cattiveria” del bambino.

Il Disturbo da deficit d’attenzione ed iperattività è uno dei disturbi neuropsichiatrici più frequenti in età evolutiva: ha un’incidenza intorno al 4% con netta prevalenza maschile (i rapporti sono variabili da 4:1 a 9:1).

Si tratta di un disturbo complesso che nel 70-80% dei casi coesiste con un altro o altri disturbi, il che aggrava la sintomatologia rendendo difficile sia la diagnosi sia la terapia. Quelli più frequentemente associati sono il disturbo oppositivo-provocatorio e i disturbi della condotta, i disturbi specifici dell’apprendimento (dislessia, disgrafia, etc.), i disturbi d’ansia e, con minore frequenza, la depressione, il disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo da tic, fino al disturbo bipolare.

Come dicevo non è un problema temporaneo; in un caso su due permane fino all’età adulta: si stima ne sia affetto il 2% della popolazione.

Per quanto riguarda la sintomatologia clinica evito volutamente la pubblicazione: rimando ai siti dedicati e sconsiglio inutili autodiagnosi. Alcune osservazioni sono comportamenti infantili ricorrenti. È la quantità, la frequenza e la durata dei sintomi a determinare il quadro diagnostico. Per questo è importante non banalizzare.

Bisogna rivolgersi alla più vicina Unità di Neuropsichiatria infantile. O a specialisti di chiara fama; da evitare anche il semplice passaparola tra genitori: è importante che il professionista dica la verità, non ciò che una madre o un padre vorrebbero sentire.

Gli ultimi quarant’anni di ricerche hanno portato alla considerazione e allo studio di numerosi fattori all’origine dell’ADHD: fattori genetici, fattori morfologici cerebrali, fattori prenatali e perinatali, fattori traumatici. In questo variegato complesso di cause c’è pur sempre da considerare che l’attivazione della predisposizione al disturbo è verosimilmente modulata anche da fattori ambientali (famiglia, educazione, contesti sociali…) ma è assolutamente importante sottolineare che essi non sono da soli sufficienti a stabilirne la genesi.

-Come vive X ?

Immaginate, mentre leggete, di essere bombardati da tanti altri eventi disturbanti: la televisione accesa, i vostri figli che gridano, il telefono che squilla; non potete focalizzare la vostra attenzione solo su quello che state facendo, nonostante vi interessi tanto. Vi sentite agitati e frustrati, perché vi rendete conto di non riuscire nel vostro obiettivo. Pensate poi se tutto questo vi venisse richiesto per una pagina di storia medievale o una ventina di espressioni algebriche.

I bambini con ADHD sono nella maggior parte dei casi definiti “difficili” fin dalla nascita. Non dormono, piangono spesso, sono costantemente irrequieti; parenti e amici hanno sempre buoni consigli per risolvere la situazione. Ma la situazione invece non migliora, lasciando i genitori nudi e impotenti sotto il giudizio altrui. Al nido e poi alla scuola d’infanzia sono quei bambini che non permettono le attività, che rovinano le feste, che non rispettano mai turni e file. All’inizio, gli estranei tendono a ignorarli. Poi tentano di porre loro stessi un freno all’eccessiva “vivacità” e, non riuscendoci, concludono che X sia intenzionalmente maleducato e distruttivo.

Nel frattempo X, abituato a spostare continuamente il punto di focalizzazione su tutto ciò che ha intorno, non può non notare la disapprovazione di cui è oggetto e il disagio dei genitori. Il che trascina tutta la famiglia in una spirale di scoraggiamento e senso di colpa.

A scuola gli insegnanti, non sempre adeguatamente formati, faticano a riconoscere e accettare i comportamenti di X come indipendenti dalla sua volontà: mentre i disturbi funzionali dell’apprendimento sono comprensibili e di facile compensazione, un bambino con disturbo dell’attenzione, associato magari a disturbo oppositivo-provocatorio mette alla prova chiunque. Non sta seduto, non segue mai, compie movimenti seriali e rumorosi, non ha idea di come gestire il suo materiale.

E una volta etichettato, il suo destino è segnato.

In realtà, laddove X assume un ruolo attivo, riesce ad essere collaborante, cooperativo e volto al mantenimento delle relazioni di amicizia.

Quando invece il suo ruolo diventa passivo e non ben definito, diventa più contestatore e incapace di comunicare proficuamente con i coetanei e con l’adulto.

Oggi le terapie suggerite prevedono l’alternanza dell’intervento farmacologico e della terapia cognitivo-comportamentale, che deve coinvolgere tutti gli attori della vita di X.

Sono scelte complesse e angosciose, spesso accompagnate da dannosi pregiudizi e da scarso supporto scientifico, sia medico che pedagogico, per le famiglie coinvolte.

La scuola e la medicina devono assolutamente potenziare gli screening, la ricerca, la sperimentazione e il sostegno terapeutico e sociale a tutti gli X e a chi sta loro vicino. 

#supportx

Fonti:

www.aidaiassociazione.com

http://www.aifa.it/adhd.htm#centro

http://www.ondaosservatorio.it/ondauploads/2014/11/ADHD_alta.pdf

 

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